Corridoi che si spezzavano e si frantumavano dietro di me, che crollavano, schegge d'arcobaleni infranti. E sopra ogni altra cosa, lo schermo gl'energia dei cristalli X, le cui convulsioni laceravano e distruggevano Astellar.
Poi, udii qualcosa nella mia mente, e non con le mie orecchie. La gente di Shirina, che moriva tra le rovine.
La mia mente era stordita, ma non abbastanza. Potevo ancora udire. Posso ancora udire.
La Regina di Giove era intatta, e salva. Le vibrazioni che si spostavano verso l'esterno non l'avevano ancora raggiunta. Salimmo a bordo, aprii le grandi porte che si spalancavano sullo spazio, e la lanciai io stesso, poiché il capitano e il secondo ufficiale si erano addormentati per sempre su Astellar.
Non guardai la morte di Astellar. Soltanto dopo lungo tempo mi voltai a guardare, ed era scomparso, e al suo posto c'era soltanto una nuvola di polvere luminosa, baluginante alla cruda luce del sole.
Regolai il pilota automatico sul quartier generale dell'Autorità Spaziale su Marte e attivai il segnale a largo raggio di richiesta d'aiuto. Poi lasciai la Regina di Giove sulla scialuppa di salvataggio numero 4, ponte B.
Dentro questa scialuppa mi trovo adesso, intento a scrivere questo, in qualche punto fra Marte e la Cintura. Non ho visto Virgie prima di andarmene. A quest'ora si saranno svegliati. Spero che la loro vita valga quello che sono costati.
Astellar è scomparso. Il Velo è scomparso. Non dovete più averne paura. Infilo questo manoscritto in un razzo postale e ve lo spedirò, così saprete che non dovete più aver paura. Non so perché m'importi tanto che lo sappiate.
Non so affatto perché io stia scrivendo questo, a meno che... Sciocchezze, lo so benissimo! Perché mentire? A questo punto del gioco, perché mentire?
Ora sono vivo. E giovane. Ma è stata la Nuvola a conservarmi così, e adesso non c'è più, e fra poco diventerò vecchio, troppo vecchio, molto rapidamente, e morirò. E ho paura di morire.
In qualche punto del sistema solare ci sarà qualcuno disposto a pregare per me. Quand'ero bambino, mi dicevano che la preghiera aiutava. Voglio che qualcuno preghi per la mia anima, poiché io non posso farlo per me stesso. Se fossi lieto per ciò che ho fatto, se fossi cambiato, forse potrei pregare. Ma sono andato al di là dell'umanità, e non posso tornare indietro.
Forse la preghiera non ha importanza. Forse non c'è nulla oltre la morte, soltanto l'oblio. Spero che sia così! Se soltanto potessi cessare di esistere, cessare di pensare, cessare di ricordare.
Spero per tutti gli dèi di tutti gli universi che la morte sia la fine. Ma non so, e ho paura.
Paura. Judas - Judas - Judas! Ho tradito due mondi, e non potrebbe esserci un inferno più profondo di quello in cui vivo ora. E ho ancora paura.
Perché? Perché dovrei preoccuparmi di ciò che è successo? Ho distrutto Astellar. Ho ucciso Shirina, che ho amato più di qualunque altra cosa nell'intero creato. Ho ucciso i miei amici, i miei compagni — e ho ucciso me stesso.
E non ne valeva la pena. Neppure tutto il bestiame umano che prolifera nel sistema solare valeva Astellar, e Shirina, e le cose che abbiamo fatto al di là dello spazio e del tempo, insieme.
Perché ho dato a Missy quel medaglione?
Perché ho dovuto incontrare Virgie, coi suoi capelli rossi?
Perché ho ricordato? Perché me ne è importato? Perché ho fatto quello che ho fatto?
Perché mai sono nato?
Sanità mentale
Sanity
di Fritz Leiber
Astounding, aprile
Malgrado abbia fatto con frequenza assai maggiore la sua comparsa nel campo del fantastico (specialmente Unknown e Weird Tales) durante la prima metà degli anni quaranta, Fritz Leiber ha pubblicato di tanto in tanto anche un racconto di fantascienza. Tuttavia, il suo impetuoso irrompere in prima linea nel mondo della SF avrebbe dovuto aspettare gli anni cinquanta.
«Sanità mentale» è interessante a causa del suo punto di vista morale. Anche se molti scrittori di fantascienza erano antimilitaristi e lamentavano la distruttività della guerra, relativamente pochi fra essi permettevano che punti di vista pacifisti parecchio energici emergessero nelle loro storie... dopotutto, venivano pubblicati su riviste che mettevano in misura ragguardevole l'accento sull'azione e l'avventura, con la parziale eccezione di Astounding. Per giunta, la minaccia nazista era così grande e la guerra contro il nazismo così giusta che quasi tutti gli scrittori tendevano a sostenere lo sforzo bellico degli alleati.
Nondimeno, Fritz Leiber rimase così sgomento davanti alle distruzioni che la guerra causava, che si scagliò contro gli orrori di tutte le guerre in questo suo convincente racconto, e anche in altri.
(Sottolineo la frase di Marty: «La minaccia nazista era così grande e la guerra contro il fascismo così giusta». È vero. Marty non la visse e sa soltanto ciò che ha letto, essendo allora un giovincello. Io, tuttavia, l'ho vissuta, e ricordo la disperazione e il terrore di quegli anni in cui sembrava che tirannie infami avanzassero inesorabilmente ogni anno di più. Eppure, man mano i tempi si allungavano, la cosa peggiore che Hitler fece, fu quella di far apparire la guerra una cosa necessaria. Quindi dobbiamo rendere grandi onori a coloro che videro, perfino nel colmo di questa particolare situazione, la grande e assoluta verità che la guerra è il male, e lo fecero per di più prima che l'avvento della bomba nucleare rendesse tale fatto lampante a tutti, tranne che alle intelligenze più infime. I.A.)
«Entra pure, Phy, e mettiti comodo».
La voce squillante — e la porta che si era dilatata all'improvviso — colsero di sorpresa il segretario generale mondiale mentre giocherellava con una bolla di gasoide verdastro, spremendolo nel pugno e osservando le piatte appendici che gli colavano fuori, tra le dita, senza dissiparsi. Lentamente, tortuosamente, girò la testa. Il direttore mondiale Carrsbury fu conscio di uno sguardo che era, allo stesso tempo, goffo, vuoto, scaltro. Di colpo, quell'espressione fu sostituita da un sorriso nervoso. Quell'uomo esile si raddrizzò quel tanto che potevano consentirgli le spalle cascanti, entrò in fretta e si sedette sul bordo estremo d'una poltrona a sagomatura pneumatica.
Maneggiò imbarazzato la bolla di gasoide, guardandosi intorno alla ricerca di un buco o di una fessura per i rifiuti. Non ne trovò, e si cacciò frettolosamente la bolla in tasca. Poi bloccò l'inutile agitarsi delle mani stringendole insieme, con fare deciso, e restò immobile, gli occhi fissi al pavimento.
Come ti senti, vecchio?» chiese Carrsbury, con voce amichevole.
Il segretario generale non sollevò lo sguardo.
«Qualcosa che ti preoccupa, Phy?» continuò Carrsbury, in tono sollecito. «Ti senti un po' infelice, o insoddisfatto, per il tuo... ehm... trasferimento, adesso che è giunto il momento?»
Il segretario generale continuò a non rispondere. Carrsbury si sporse in avanti, sopra la scrivania semicircolare d'argento opaco e, col suo tono di voce più accattivante, insisté: «Suvvia, vecchio mio, dimmi tutto».
Il segretario generale non sollevò la testa, ma ruotò all'insù quei suoi strani occhi remoti fino a quando non furono puntati direttamente su Carrsbury. Il suo corpo, scosso da un lieve tremito, parve contrarsi, e le sue mani esangui accentuarono ancora di più la stretta.
«Lo so», disse a bassa voce, con uno sforzo, «tu pensi che io sia uno sciocco insensato».
Carrsbury si lasciò andare contro lo schienale, costringendo le proprie sopracciglia ad aggrottarsi, perplesse, sotto i suoi capelli argentei.
«Oh, non devi fingere d'esser perplesso», continuò Phy, in fretta, adesso che aveva rotto il ghiaccio. «Sai bene quanto me ciò che significa quella parola. Anzi, meglio di me... anche se entrambi abbiamo dovuto compiere ricerche storiche per scoprirlo.
«Insensato», ripeté, in tono vago, lo sguardo remoto. «Deviazione significativa dalla norma. Incapacità a conformarsi alle convenzioni basilari che regolano ogni comportamento umano».
«Sciocchezze!» esclamò Carrsbury, rianimandosi ed esibendo il suo più caldo e accattivante sorriso. «Non ho la più pallida idea di cosa tu stia parlando. Sei un po' stanco, un po' teso, turbato... è del tutto comprensibile, considerando il fardello che hai dovuto sopportare, e un po' di riposo è proprio ciò che ti vuole per rimetterti, una bella, lunga vacanza, lontano da tutto questo. Ma in quanto a pensare che tu sia... ah, è ridicolo!»
«No», insisté Phy, inchiodando Carrsbury con lo sguardo. «Tu pensi che io sia insensato. Tu pensi che tutti i miei colleghi del Direttivo Mondiale siano insensati. Per questo ci fai sostituire da quegli uomini che hai addestrato per dieci anni nel tuo Istituto della Guida Politica... sin da quando col mio aiuto, e con la mia complicità, sei diventato Direttore Mondiale».
Carrsbury si ritrasse davanti al tono esplicito e secco con cui era stata fatta questa dichiarazione. Per la prima volta il suo sorriso si fece un po' incerto. Cominciò a dire qualcosa, poi esitò e guardò Phy, quasi con la speranza che continuasse a parlare.
Ma Phy aveva ripreso a fissare, ostinato, il pavimento.
Carrsbury tornò a lasciarsi andare contro lo schienale. Rifletté. Quando parlò, lo fece con un tono assai più spontaneo, genuino, senza più sfumature melliflue o paternalistiche.
«Be', d'accordo, Phy. Ma ascolta, e rispondimi in tutta sincerità. Tu, e gli altri, non sarete assai più felici, una volta che sarete stati sollevati da tutte le vostre responsabilità?»
Phy annuì, cupo. «Sì», ammise, «lo saremo... ma», il suo volto si fece teso, «vedi...»
«Ma...?» lo sollecitò Carrsbury.
Phy deglutì con sensibile sforzo. Sembrò incapace di continuare. Si era gradualmente afflosciato su un lato della poltrona, e aveva così schiacciato il gasoide che gli stava colando fuori dalla tasca. Le sue lunghe dita gli strisciarono sopra e ripresero bruscamente a impastarlo.
Carrsbury si alzò in piedi e girò intorno alla scrivania. La sua espressione accigliata e comprensiva, dalla quale era scomparsa ogni perplessità, non era, però, del tutto genuina.
«Non vedo perché non dovrei dirti tutto, adesso, Phy», fece, ostentando sincerità. «In qualche bizzarra maniera, devo tutto a te. E adesso non c'è più nessun motivo di tenerlo segreto... non c'è più nessun pericolo...»
«Sì», ammise Phy, con un fugace, amaro sorriso, «ormai da qualche anno non hai più corso il pericolo di un colpo di stato. Se mai ci fossimo ribellati, ci sarebbe stata...» il suo sguardo si appuntò sulla parete opposta, là dove una linea verticale appena accennata tradiva la presenza di una porta, «... la tua polizia segreta».
Carrsbury trasalì. Non aveva pensato che Phy lo sapesse. In modo inquietante gli si disegnò nella mente la frase la furberia dei pazzi. Ma solo per un attimo. Un amichevole compiacimento tornò ad avvolgere, esteriormente, la sua figura. Andò dietro la poltrona di Phy e gli appoggiò entrambe le mani sulle spalle spioventi.
«Sai, ho sempre provato un sentimento tutto speciale verso di te, Phy», disse, «e non soltanto perché certe tue geniali ispirazioni hanno molto facilitato la mia ascesa a direttore mondiale. Ho sempre sentito che eri diverso dagli altri, che c'erano delle volte, quando...» esitò.
Phy si contorse un po' sotto quelle mani amiche. «Quando avevo i miei momenti di buonsenso?» terminò, chiaro e tondo.
«Come adesso», disse Carrsbury, con voce sommessa, dopo un cenno del capo che l'altro non poté vedere. «Ho sempre sentito che qualche volta, in una qualche maniera irreale, contorta, tu capivi. E questo ha significato molto, per me. Sono rimasto solo, Phy, terribilmente solo per dieci anni interi. Nessuna amicizia in nessun luogo, neppure tra gli uomini che io stesso ho addestrato nell'Istituto della Guida Politica... poiché ho dovuto recitare una parte anche con loro, tenendoli nell'ignoranza di certi fatti, per timore che tentassero di prendere il potere, scavalcandomi, prima che fossero sufficientemente preparati. Nessuna amicizia, in nessun luogo, salvo per le mie speranze... e per qualche occasionale momento. Adesso che è finita, e che un nuovo regime sta cominciando per entrambi, posso dirti tutto questo. E ne sono contento».
Vi fu silenzio. Poi... Phy non mosse la testa, ma una mano magra e sottile strisciò all'insù e toccò quella di Carrsbury. Questi si schiarì la gola. Strano, pensò, che potesse esserci anche soltanto un momentaneo rapporto come quello, fra il sensato e l'insensato. Ma era così.
Liberò le mani, tornò rapidamente alla scrivania, si voltò.
«Io sono una regressione, Phy», cominciò, con un diverso tono di voce, insolitamente accalorato ed efficiente. «Una regressione a un tempo in cui la mentalità umana era molto più equilibrata. Che il mio caso fosse dovuto soprattutto all'ereditarietà, o a certi insoliti incidenti ambientali, o a entrambe le cose, non è importante. Questo era il punto: era nata una persona in posizione di criticare l'attuale stato dell'umanità alla luce del passato, di compiere un'accurata diagnosi del male e iniziare la cura. Per lungo tempo mi ero rifiutato di guardare in faccia i fatti, ma alla fine le mie ricerche — specialmente quelle nella letteratura del ventesimo secolo — non mi lasciavano alternative. La mentalità dell'uomo era divenuta aberrante. Soltanto certi progressi tecnologici, i quali avevano avuto il risultato di rendere la vita infinitamente più facile e semplice, e il fatto che fosse stato posto termine alla guerra con la creazione dell'attuale stato mondiale, avevano allontanato l'inevitabile crollo della civiltà. Ma solo allontanato... ritardato. Le grandi masse dell'umanità erano diventate quelle che un tempo sarebbero state definite neurotiche senza speranze. I loro capi erano diventati... l'hai detto tu per primo, Phy... insensati. Incidentalmente, quest'ultimo fenomeno — l'assunzione graduale da parte degli aberranti psicotici delle posizioni di guida — è stato ben noto in tutte le epoche».
Fece una pausa. Si sbagliava, oppure Phy stava seguendo le sue parole dando segno di una chiarezza mentale maggiore di quanto lui avesse notato prima, perfino in quel segretario mondiale, relativamente non violento? Forse — aveva spesso sognato, nostalgicamente — c'era ancora una possibilità di salvare Phy. Forse, se soltanto fosse riuscito a spiegargli con chiarezza e con calma...
«Nei miei studi storici», riprese, «sono presto arrivato alla conclusione che il periodo cruciale è stato quello dell'Amnistia Finale, in coincidenza con la fondazione dell'attuale stato mondiale. Ci hanno insegnato che a quell'epoca furono liberati dalla prigionia milioni di prigionieri politici... e milioni di altri. Ma chi erano questi altri? A questa domanda, la storia che c'insegnano oggi ha dato soltanto una risposta vaga e insulsa. Mi sono imbattuto in grosse difficoltà semantiche, lo confesso, ma ho insistito. Perché, mi sono chiesto, parole come insensatezza, lunaticità, follia, psicosi, sono scomparse dal nostro vocabolario... e i concetti dietro ad esse dai nostri pensieri? Perché mai l'argomento «psicologia anormale» è scomparso dai programmi delle nostre scuole? E, cosa d'importanza maggiore, perché mai la nostra moderna psicologia è così straordinariamente simile, nel suo campo d'indagine, alla psicologia anormale, come la si insegnava nel ventesimo secolo, e soltanto ad essa? Perché mai non ci sono più, come invece c'erano nel ventesimo secolo, istituti per la reclusione e la cura di coloro che sono psicologicamente aberranti?»
Phy alzò la testa di scatto. Sorrise nel suo modo contorto. «Perché», la sua voce fu uno scaltro bisbiglio, «adesso sono tutti insensati».
La furberia dei pazzi. Ancora una volta questa frase si profilò ammonitrice nella mente di Carrsbury. Ma solo per un momento. Annuì.
«Sulle prime, mi ero rifiutato di giungere a quella deduzione. Ma gradualmente ho ragionato sul perché e sul percome ciò era successo. Non era soltanto il fatto che una civiltà altamente tecnologica aveva sottoposto l'umanità a un'eccessiva gamma di stimoli, suggestioni in conflitto fra loro, tensioni mentali, lacerazioni emotive, il tutto sempre più intenso e a un ritmo sempre più rapido. Nei testi psichiatrici del ventesimo secolo vengono fatte osservazioni su una tipica psicosi che deriva dal successo. Un individuo squilibrato continua a funzionare fintanto che combatte contro qualcosa, finché ha una meta per cui lottare. Una volta raggiunta questa meta, va in pezzi. Le sue incoerenze, fino a quel momento represse, salgono in superficie, si rende conto di non saper più ciò che vuole, le sue energie, finora impegnate a combattere qualcosa di esterno, si rivolgono contro lui stesso, e ne viene distrutto. Bene, quando la guerra venne definitivamente dichiarata fuori legge, quando l'intero mondo divenne un unico stato unificato, quando le diseguaglianze sociali furono abolite... vedi a cosa miro?»
Phy annuì lentamente. «Questa», disse con un tono di voce bizzarramente remoto, «è una deduzione molto interessante».
«Avendo, sia pure con riluttanza, accettato questa fondamentale premessa», proseguì Carrsbury, «ogni cosa mi divenne più chiara. Le fluttuazioni cicliche semestrali del credito mondiale, ad esempio... mi resi subito conto che Morgenstern, delle Finanze, doveva essere un maniaco depressivo con alternanze, appunto, semestrali, oppure un individuo con una duplice personalità, una da scialacquatore e l'altra da usuraio. Risultò che era vera l'ipotesi del maniaco depressivo. E perché mai il Dipartimento del Progresso Culturale ristagnava? Perché il suo direttore Hobart era marcatamente catatonico. Perché mai la Ricerca Extraterrestre conosceva un simile "boom"? Perché McElvy era un estroverso entusiasta».
Phy lo fissò con aria stupita. «Ma è naturale», disse, allargando le sue magre mani, da una delle quali il gasoide scivolò fuori formando un lungo ricciolo verde.
Carrsbury gli lanciò un'occhiata penetrante. Rispose: «Sì. So che tu e molti altri avete una certa, distorta consapevolezza delle differenze che esistono tra le vostre... personalità, anche se non ne avete nessuna delle aberrazioni di fondo presenti in tutti. Ma, andiamo avanti. Non appena mi resi conto di come stavano in realtà le cose, il mio destino fu segnato. Da uomo sensato, capace di perseguire, con costanza e continuità, scopi realistici, e circondato da individui le cui inconsistenze e illusioni erano facili da manipolare, ero nella condizione di poter raggiungere, con il tempo e un accorto comportamento, qualunque meta cui volessi puntare. Ero già arrivato a un rango direttivo. Nel giro di tre anni, divenni Direttore Mondiale. Conseguito questo risultato, la portata della mia influenza fu immensamente accresciuta. Come nel famoso detto di Archimede, avevo un punto su cui appoggiarmi per sollevare il mondo. Fui in grado, in vari modi e con diversi pretesti, di promulgare leggi e regolamenti il cui vero scopo era quello di dar sollievo alle sterminate masse di neurotici, riducendo gli stimoli sconvolgenti e introducendo un programma di vita più tranquillo e ordinato. Fui in grado, manovrando i miei compagni dirigenti, e sfruttando al massimo le mie grandi capacità lavorative, di mantenere gli affari mondiali su un binario abbastanza sicuro, per quanto traballante... quanto meno evitando il peggio. E allo stesso tempo fui in grado d'iniziare il mio piano decennale... l'addestramento, in relativo isolamento, di un piccolo gruppo, poi gradualmente accresciuto man mano i più preparati potevano a loro volta diventare istruttori, di potenziali guide attentamente scelte in base alla loro relativa indipendenza da tendenze neurotiche».
«Ma questo...» cominciò Phy, piuttosto eccitato, accennando ad alzarsi in piedi.
«Ma questo?» si affrettò a chiedere Carrsbury.
«Niente», borbottò Phy, scoraggiato, tornando a sprofondare nella poltrona.
«Questo, più o meno, completa il quadro», concluse Carrsbury, con voce all'improvviso più sorda. «Salvo per una faccenda secondaria. Non potevo permettermi di continuare senza una protezione. Troppe cose dipendevano da me. C'era sempre il rischio d'essere spazzato via da qualche scoordinato ma nondimeno efficace rigurgito di violenza, per far fronte al quale nessun comportamento, per quanto accorto, da parte mia, sarebbe bastato, da parte di questa o quella cricca di dirigenti. Così, soltanto perché non riuscii a vedere nessun'altra alternativa, feci un passo pericoloso. Creai», il suo sguardo andò a quella linea quasi invisibile, là sulla parete, «la mia polizia segreta. C'è un tipo di neurosi, o insensatezza che sia, chiamato paranoia, un'esagerata propensione al sospetto che implica mania di persecuzione. Grazie alle tecniche ipnotiche messe a punto già nel ventesimo secolo, inculcai nelle menti di un certo numero di questi sfortunati individui l'idea fissa che la loro vita dipendeva da me, e che io ero minacciato da ogni parte, e dovevo esser protetto ad ogni costo. Un espediente sgradevole, anche se ha servito al suo scopo. Sarò contento, molto contento, quando potrò porvi fine. Tu capisci, non è vero, perché ho dovuto intraprendere questo passo?»
Fissò Phy, sollecitando una risposta... e si avvide, con uno shock, che quell'individuo lo guardava sogghignando, vacuo, reggendo il gasoide fra due dita.
«Ho fatto un buco nel mio divano e ne è uscito un mucchio di questa roba», spiegò Phy, farfugliando. «Le propaggini di questa roba hanno invaso tutto il mio ufficio. Ho continuato a inciamparci». Le sue dita accarezzarono il gasoide con destrezza, scolpendolo nella forma di un'orrida testa verde, translucida, che poi nuovamente spremette in una massa informe. «Strana roba», commentò. «Liquido rarefatto... o gas a volume costante. È per tutto il mio ufficio, aggrovigliato ai mobili».
Carrsbury si lasciò andare contro lo schienale e chiuse gli occhi. Le sue spalle ricaddero. All'improvviso si sentì un po' stanco, bramoso che quel giorno, che pure era quello del suo trionfo, finisse. Sapeva che non doveva sentirsi abbattuto per aver fallito con Phy. Dopotutto, la vittoria più importante l'aveva ottenuta. Phy era soltanto la meno importante delle questioni collaterali. Lo aveva sempre saputo, salvo illudersi per brevi momenti, che Phy era un caso disperato come gli altri. Tuttavia...
«Non devi preoccuparti per il tuo ufficio, Phy», gli disse con svogliata gentilezza. «Mai più. Toccherà al tuo successore preoccuparsi di pulirlo. Sai, a tutti gli effetti sei già stato sostituito».
«È proprio questo!» Carrsbury sussultò all'improvvisa esplosione di quella voce. Il segretario mondiale balzò in piedi e si fece avanti a rapidi, frenetici passi. «È per questo che sono venuto a trovarti! È questo che ho cercato di dirti! Non posso venir sostituito così! E nessuno degli altri! Non funzionerebbe! Non puoi farlo!»
Carrsbury, con una prontezza nata dalla lunga pratica, si raddrizzò dietro la scrivania, e costrinse i suoi lineamenti ad assumere quell'espressione di calma, sorridente benevolenza di cui, nel profondo di sé, era indicibilmente stanco.
«Su, su, Phy», lo sollecitò, con voce ilare e suadente, «tu dici che non posso farlo, e sia pure. Ma non credi che dovresti dirmene il perché? Non credi che sarebbe bello e utile sedersi e ridiscuterne tra me e te, cosicché tu possa spiegarmi?»
Phy si fermò, e abbassò la testa, confuso.
«Sì, immagino che lo sarebbe», borbottò, ripiombando nel tono basso e forzato. «Immagino di doverlo fare. Immagino che non ci sia nessun altro modo. Avevo sperato, tuttavia, di non doverti dire tutto». L'ultima frase era una mezza domanda. Sollevò lo sguardo su Carrsbury, quasi supplichevole, ma questi scosse la testa, pur continuando a sorridere. Phy tornò indietro e si sedette.
«Be'», si decise infine a cominciare, impastando, con espressione triste, il gasoide, «tutto è cominciato quando hai chiaramente dimostrato di voler diventare Direttore Mondiale. Non eri il solito tipo di candidato, ma pensavo che sarebbe stato divertente... sì, e anche vantaggioso in un certo senso». Alzò lo sguardo su Carrsbury. «Sì, hai fatto un sacco di bene, al mondo, in molti modi, ricordalo sempre», lo assicurò. «Naturalmente», proseguì, tornando a fissare per l'ennesima volta il tormentato gasoide, «non esattamente i modi che ti eri immaginato».
«No?» sbottò, istintivamente, Carrsbury. Accontentalo. Accontentalo. Il frusto ritornello gli ronzò nella mente.
Phy scosse la testa, sempre più triste: «Prendi, ad esempio, quei provvedimenti che hai promulgato per tener calma la gente...»
«Sì?»
«... sono stati cambiati, strada facendo. Così, la tua proibizione di ospitare ogni forma di letteratura eccitante nei libro-nastri... oh, sulle prime abbiamo provato a diffondere quella roba calmante che avevi suggerito. È stata assai stimolante, per tutti. Si sono fatti beffe, hanno riso. E ben presto, come ho detto, in qualche modo il tuo provvedimento è stato cambiato... è diventato, in questo caso, la proibizione di ospitare, nei libro-nastri, tutta la letteratura non-eccitante».
Il sorriso di Carrsbury si fece ancora più radioso. Per un attimo, un brivido di paura aveva aleggiato ai bordi della sua mente, ma l'ultima affermazione di Phy l'aveva rassicurato.
«Passo ogni giorno accanto a parecchi chioschi di lettura», disse, con voce gentile. «I nastri di narrativa posti in vendita sono sempre racchiusi nei contenitori dei più riposanti e placidi colori pastello. E non c'è nessuna di quelle scandalose, provocanti immagini che un tempo si vedevano dappertutto».
«Ne hai mai comperato uno, e l'hai ascoltato? Oppure, ne hai proiettato il testo visivo?» gli chiese Phy, quasi in tono di scusa.
«Per dieci anni sono stato un uomo molto occupato», gli rispose Carrsbury. «Naturalmente, ho letto i rapporti ufficiali concernenti questa faccenda, e a volte ho dato una scorsa ai riassunti di qualche libro-nastro».
«Oh, certo, la documentazione ufficiale», fu d'accordo Phy, lanciando un'occhiata alla parete dietro la scrivania, che ospitava i nastri archiviati. «Vedi, ciò che abbiamo fatto, è stato conservare i contenitori dai colori smorti, tornando però ai vecchi contenuti. Il contrasto ha solleticato la gente. Ricorda, come ti ho detto prima, che parecchie delle tue leggi hanno fatto del bene. Hanno eliminato un bel po' di sciocchezze e di chiasso inutili, tanto per cominciare».
La documentazione ufficiale. La frase si attardò in modo sgradevole nelle orecchie di Carrsbury. L'occhiata che anche lui lanciò alle file di nastri dell'archivio, dietro di sé, era impregnata d'un chiaro sospetto.
«Oh, sì», proseguì Phy. «Quella proibizione di cedere a impulsi insoliti e indecorosi, con una lista di casi specifici. Entrò in vigore, non c'è dubbio, ma con l'aggiunta di un piccolo codicillo: "a meno che non vogliate veramente farlo". Ciò era parso assolutamente necessario, sai». Le sue dita impastavano più che mai furiose il gasoide. «In quanto al divieto di molte bevande stimolanti... be', in molti luoghi vengono ancora servite, sotto altri nomi, ed è nata l'interessante abitudine di comportarsi nel modo più sobrio, mentre le si beve. E adesso, prendendo in esame la questione delle otto ore di lavoro al giorno...»
Quasi involontariamente, Carrsbury si era alzato, dirigendosi verso la parete rivolta all'esterno. Qui, fece un gesto rapido a U con la mano, interrompendo un raggio invisibile. La finestra, per così dire, si accese, e fu come se la parete esterna fosse scomparsa. Attraverso la sua trasparenza quasi perfetta, Carrsbury scrutò verso il basso, con rabbiosa curiosità, oltre le lisce, scintillanti facciate, fino alle terrazze ed ai viali alberati più sotto.
Quel po' di gente che circolava laggiù era tranquilla e ordinata quanto bastava. Ma proprio allora, vi fu un accorrere confuso: un gruppo d'individui, vere marionette visti così di scorcio, si precipitarono fuori da un negozio e cominciarono a tempestare un altro gruppo con quelle che sembravano cibarie. E nello stesso tempo, in un viale alberato laterale, due veicoli a forma di ovoide, due gocce d'argento, a quella distanza, la superficie priva di saldature visibili, iniziarono, gioiosamente, a scagliarsi l'uno contro l'altro. Qua e là, la gente cominciò a correre e ad azzuffarsi.
Carrsbury riopacizzò la finestra e si voltò. Quelli laggiù, erano eventi occasionali, si disse, tentando di calmare l'ira che lo aveva preso. Niente che avesse rilevanza statistica. In quei dieci anni l'umanità aveva costantemente proceduto verso il buonsenso, malgrado occasionali ricadute. L'aveva visto coi suoi occhi, aveva seguito il programma giorno per giorno... o almeno, quel tanto che bastava per saperlo. Era stato uno sciocco a permettere che l'incoerente discorso di Phy avesse effetto su di lui... solo i suoi nervi stanchi avevano reso possibile la cosa.
Lanciò un'occhiata all'orologio.
«Scusami», disse, passando oltre la poltrona di Phy, «mi piacerebbe continuare questa conversazione, ma devo presenziare al primo incontro col nuovo personale della Direzione Centrale».
«Oh, ma non puoi!» Phy balzò in piedi e l'afferrò per un braccio. «Semplicemente, non puoi andare... lo sai! È impossibile!»
La voce implorante s'innalzò fino a diventare un urlo. Impaziente, Carrsbury cercò di scrollarsi l'altro di dosso. La sottile fessura nella parete laterale si allargò, divenne una porta. Immediatamente, i due smisero di lottare.
Sulla soglia era comparso un gigante cadaverico, con un'arma tozza e nera in mano. Una barba nera, disordinata, sfumava in due guance esangui. Il suo volto era un miscuglio di sospetto e fanatica devozione, il primo rivolto, insieme alla bocca dell'arma, verso Phy, la seconda — e gli occhi da sonnambulo — verso Carrsbury.
«La stava minacciando?» chiese il barbuto con voce aspra, agitando l'arma in modo significativo.
Per un attimo un lampo di rabbia vendicativa balenò negli occhi di Carrsbury. Poi si spense. Cosa mai gli stava capitando? si chiese. Quel povero sciocco lunatico del segretario mondiale non era certo qualcuno da odiare.
«Oh, no, Hartman», replicò, ormai calmo. «Stavamo discutendo di qualcosa, ci siamo eccitati, e abbiamo permesso alle nostre voci di alzarsi. Tutto è a posto».
«Molto bene», disse il barbuto, dubbioso, dopo un breve silenzio. Con riluttanza, reinfilò l'arma nella fondina, ma vi tenne la mano sopra e restò immobile sulla soglia.
«E ora», disse Carrsbury, divincolandosi, «devo andare».
Era salito sul nastro mobile, nel corridoio, percorrendo metà strada verso l'ascensore, quando si rese conto che Phy l'aveva seguito e gli stava tirando timidamente la manica.
«Non puoi andartene così», lo implorò Phy, con urgenza, lanciando un'occhiata apprensiva dietro di sé. Carrsbury notò che anche Hartman li aveva seguiti... un sinistro pilastro a due passi da loro. «Mi devi dare la possibilità di spiegarti, di dirti perché, proprio come mi hai chiesto di fare».
Accontentalo. La mente di Carrsbury era mortalmente stanca di quel seccatore, ma proprio per stanchezza s'indusse a stare al gioco ancora per un po'. «Puoi parlarmi in ascensore», gli concesse, scendendo dal nastro mobile. La sua mano guizzò nel consueto gesto a U, e un lampo luminoso indicò che, obbediente, la cabina dell'ascensore stava salendo.
«Vedi, non è soltanto la faccenda delle norme che proibiscono questo o quello», si affrettò a proseguire Phy. «Ci sono molte altre cose che non hanno mai funzionato come dicevano i tuoi rapporti ufficiali. I bilanci dipartimentali, ad esempio. So che i rapporti mostravano una continua diminuzione dei finanziamenti alle ricerche extraterrestri, ma la verità è che, in questi tuoi dieci anni di carica, essi sono cresciuti di dieci volte. Ovviamente, tu non avevi alcun modo per saperlo. Non potevi esser dovunque nello stesso tempo, e assistere a ogni singolo lancio di razzi super-stratosferici».
La luce smise di ammiccare. Una giuntura si dilatò. Carrsbury entrò nell'ascensore. Rifletté se mandare o no indietro Hartman. Il povero Phy non costituiva una minaccia. Tuttavia... la furberia dei pazzi. Decise di non rimandarlo indietro. Alzò la mano e attivò il raggio che avrebbe comandato la salita della cabina fino al centesimo e ultimo piano. La porta tornò a chiudersi con uno sbuffo. La cabina, prese a salire immersa nel buio, mentre i numeri dei piani ammiccavano in successione.
«E poi, il servizio militare. L'avevi fatto drasticamente ridurre».
«Certo che l'ho fatto». Carrsbury era spinto a parlare dalla stessa noia che l'afferrava. «C'è una sola nazione al mondo. È ovvio che l'unica esigenza militare è, oggi, un'adeguata forza di polizia. Per non parlare dei rischi impliciti nel mettere armi in mano all'attuale popolazione mondiale».
«Lo so», la risposta di Phy giunse dalla penombra con un tono colpevole. «Tuttavia è accaduto che, a tua insaputa, il servizio militare si è accresciuto di dimensioni, e recentemente sono stati aggiunti tre squadroni di addetti ai razzi».
Cinquantasette. Cinquantotto. Accontentato. «Perché?»
«Be', vedi. Abbiamo scoperto che la Terra viene di continuo ispezionata... spiata. Forse da Marte. E da forze con tutta probabilità ostili. Dovevamo tenerci pronti. Non te l'abbiamo detto; temevamo che la cosa potesse... eccitarti».
La voce di Phy si spense. Carrsbury chiuse gli occhi. Quanto tempo ancora? Quanto tempo, si chiese, quanto tempo? Si rese conto, con blanda sorpresa, che era bastata quell'ultima ora a far sì che la gente come Phy, sopportata per dieci anni, gli diventasse insopportabilmente stancante. In quel momento, perfino la prospettiva dell'imminente conferenza che avrebbe presieduto, la conferenza che avrebbe dato il via, finalmente, a un mondo del tutto sensato, mancò di eccitarlo. Una reazione al successo? Alla fine della tensione durata dieci anni?
«Sai quanti piani possiede questo edificio?»
Carrsbury non fu subito consapevole del cambiamento di tono della voce, ma reagì prontamente:
«Cento», disse.
«Allora», proseguì Phy, «dove ci troviamo adesso?»
Carrsbury aprì gli occhi nel buio: Centoventisette, ammiccava la piastra della numerazione. Centoventotto. Centoventinove.
Qualcosa di gelido afferrò in una morsa lo stomaco di Carrsbury, gli strattonò il cervello. Gli parve che la sua mente venisse con inesorabile lentezza contorta. Pensò a dimensioni nascoste e a buchi insospettati nello spazio. Qualche vago ricordo della fisica elementare gli danzò tra i pensieri: se fosse stato possibile per un ascensore continuare a muoversi verso l'alto con accelerazione costante, nessuno, all'interno della cabina, avrebbe potuto stabilire se l'effetto che stavano sperimentando era dovuto all'accelerazione o alla gravità... se, cioè, l'ascensore era fermo, immobile, sulla superficie d'un pianeta, o se invece veniva sparato verso l'alto, con velocità sempre crescente, verso lo spazio aperto.
Centoquarantuno. Centoquarantadue.
«Come se tu t'innalzassi attraverso la consapevolezza fin dentro a un insospettato reame della mente che si stende più sopra», suggerì Phy, con la sua nuova voce, venata da una traccia d'una cortese risatina.
Centoquarantasei. Centoquarantasette. Adesso stava rallentando. Centoquarantanove. Centocinquanta. Si era fermato.
Quello, sì, era uno scherzo. Il pensiero fu come acqua fredda sul volto di Carrsbury. Un astuto, infantile scherzo di Phy. Era facile imbrogliare i numeri. Carrsbury cercò a tentoni nell'oscurità. Incontrò la liscia superficie d'una fondina, la coriacea corporatura di Hartman.
«Preparati a una sorpresa», lo avvertì Phy, da un punto vicino alla sua spalla. Quando Carrsbury si girò, cercando di aggrapparsi a qualcosa, fu investito dalla vivida luce dei sole, seguita da uno spasimo di vertigine che quasi gli arrestò il cuore.
Lui, Hartman e Phy, insieme a pochi, incorporei comandi, erano in piedi sull'aria, cinquanta piani sopra il centesimo che costituiva la sommità del Centro Direttivo Mondiale.
Per un attimo, si aggrappò freneticamente al nulla. Poi, si rese conto che non stava precipitando, e i suoi occhi cominciarono a percepire la vaga traccia del soffitto, del pavimento, delle pareti e, subito sotto di loro, il fantasma d'una tromba di ascensore.
Phy annuì: «C'è tutto, non dubitare», garantì a Carrsbury, con tono ovvio, quasi distratto. «È solo un'altra di quelle strane, affascinanti idee moderne contro le quali hai legiferato con tanta insistenza... come le nostre scale incomplete e le strade che non portano da nessuna parte. Il Comitato Edilizio ha deciso di prolungare la portata degli ascensori, a scopo panoramico. La tromba è stata realizzata con materiali trasparenti, per non guastare il profilo dell'edificio originario, e garantire una vista panoramica perfetta. Tutto è stato realizzato in modo così perfetto, che è stato necessario installare un sistema elettronico di avvertimento per impedire ai jet e agli altri aerei di passaggio di schiantarsi contro di esse. Le pareti delle cabine sono state poi progettate come le finestre a opacità regolabile... un ovvio dettaglio».
Fece una pausa e guardò Carrsbury con aria canzonatoria. «Tutto molto semplice», osservò. «Ma non trovi che ci sia una specie di simbolismo in tutto ciò? Sono ormai dieci anni che passi la maggior parte della tua vita in quell'edificio, là sotto. Ogni giorno hai usato quest'ascensore. Ma non una sola volta hai immaginato l'esistenza di questi cinquanta piani in più. Non pensi che qualcosa di analogo potrebbe esser vero riguardo alle tue osservazioni su altri aspetti della vita sociale contemporanea?»
Carrsbury lo fissò stupidamente, a bocca aperta.
Phy si voltò a fissare il puntino nero di un aereo in avvicinamento, che stava diventando sempre più grande. «Guardalo anche tu», disse, rivolgendosi a Carrsbury. «Guardalo con attenzione, perché sta per portarti verso una vita molto più felice e riposante».
Carrsbury socchiuse le labbra, se le inumidì. «Ma...» fece, incerto. «Ma...»
Phy sorrise. «Hai ragione, non ho finito le mie spiegazioni. Be', avresti potuto continuare a fare il Direttore Mondiale per tutta la tua vita, nell'isolamento del tuo ufficio e le tue migliaia di rapporti su nastro e le tue occasionali chiacchierate con me e gli altri. Ma... il tuo Istituto per la Guida Politica e il tuo Piano Decennale hanno sconvolto le cose. Certo, ne eravamo interessati, allo stesso modo in cui ne eri interessato tu. C'erano delle possibilità, in essi. Speravamo che avrebbero funzionato nel modo giusto. Saremmo stati lieti di ritirarci dalle nostre funzioni, se così fosse stato. Ma così non è stato, e ciò ha praticamente messo fine a tutto l'esperimento».
Colse lo sguardo di Carrsbury diretto verso il basso.
«No», disse, «temo che i tuoi pupilli non ti stiano aspettando nella sala conferenza al centesimo piano. Temo che siano ancora all'istituto». La sua voce divenne ancor più gentile e comprensiva. «E temo che sia diventato... be'... un genere d'istituto un po' diverso»
Carrsbury rimase immobile, oscillando lentamente su se stesso. Gradualmente, i suoi pensieri e la sua forza di volontà stavano riemergendo dall'incubo a occhi aperti che l'aveva paralizzato. La furberia dei pazzi. Aveva trascurato quel vivido avvertimento. Proprio nel momento della vittoria...
No! Si era dimenticato di Hartman! Questo era proprio il tipo di emergenza per il quale aveva preparato quella contromossa.
Lanciò un'occhiata in tralice al membro più importante della sua polizia segreta. Il gigante nero, indifferente alla loro strana posizione, fissava furiosamente Phy come se fosse qualche mago malvagio dal quale aspettarsi i più abominevoli sortilegi.
Ora Hartman divenne conscio dello sguardo di Carrsbury. Indovinò il suo pensiero.
Sfilò l'arma scura dalla fondina e la puntò contro Phy senza il minimo tremito.
Le sue labbra si piegarono in una smorfia, tra la barba nera. Da esse uscì un suono sibilante. Poi, gridò: «Lei è morto, Phy! La disintegro».
Phy allungò il braccio e gli tolse l'arma di mano.
«Questo è un altro caso in cui tu hai completamente sbagliato a valutare l'attuale personalità umana», osservò, rivolto a Carrsbury, con una sfumatura polemica. «Tutti noi abbiamo certi argomenti sui quali siamo alquanto fuori della realtà. Ma è la natura umana. Nel caso di Hartman, era la sua sospettosità — una carenza nel suo modo di ragionare che lo convinceva dell'esistenza di complotti e persecuzioni. Gli hai dato un lavoro che era senz'altro il peggiore, per lui... un lavoro che incoraggiava le sue debolezze. In brevissimo tempo, è diventato incurabilmente irrealistico. E così, per anni non si è mai reso conto di portare una pistola finta».
La passò a Carrsbury perché l'ispezionasse.
«Ma», aggiunse, «dài a Hartman il lavoro giusto, e funzionerà bene... diciamo, qualcosa che abbia a che fare con la creatività o l'esplorazione. Adattare l'uomo al lavoro è un'arte con infinite possibilità. È per questo che abbiamo messo Morgenstern alle Finanze — per mantenere il credito entro i limiti d'una fluttuazione sicura e prevedibile. È per questo che un euforico entusiasta è stato fatto direttore della Ricerca Extraterrestre... per mantenerla in continua espansione. Perché mai il Progresso Culturale a un catatonico? Per impedire che inciampasse su se stesso per la fretta di avanzare».
Si voltò. Confusamente, Carrsbury osservò che l'oggetto volante, un elicottero, era ormai vicino alla cabina dell'ascensore, e avanzava obliquamente verso di essa.
«Ma in questo caso, perché...» cominciò, quasi balbettando.
«Perché sei stato nominato Direttore Mondiale?» concluse Phy per lui. «Non è sufficientemente chiaro? Non ti ho forse detto, parecchie volte, che indirettamente hai fatto un sacco di bene? Ci interessavi, non capisci? In effetti, eri praticamente unico. Come sai, il nostro principio fondamentale è consentire ad ogni individuo di esprimersi come vuole. Nel tuo caso, ciò comportava lasciarti diventare Direttore Mondiale. Nell'insieme, la cosa ha funzionato molto bene. Tutti se la sono spassata, sono state promulgate un certo numero di leggi costruttive, abbiamo imparato molto... sì, certo, non abbiamo ottenuto tutto ciò che speravamo, ma non ci si riesce mai. Per sfortuna, alla fine siamo stati costretti a interrompere l'esperimento».
L'elicottero accostò, fermandosi a contatto con l'ascensore.
«Tu capisci, naturalmente, perché questo era necessario?» continuò Phy in fretta, mentre spingeva Carrsbury verso il portello che si stava aprendo. «Sono certo che puoi capirlo. Tutto si riduce a una questione di buonsenso. Cos'è il buonsenso... oggi, nel ventesimo secolo, in qualunque epoca? L'aderenza a una norma. Il conformarsi a certe convenzioni di base che regolano l'intera condotta umana. Nella nostra epoca, l'allontanarsi della norma è diventata la norma. L'incapacità di conformarsi è diventato il modello del conformismo. È tutto chiaro, non è vero? E ti consente di capire, non è vero, il tuo caso e quello dei tuoi protetti? Durante un lungo periodo di anni tu hai insistito nel voler aderire a una norma, conformandoti a certe tue convenzioni di base. Eri completamente incapace di adattarti alla società intorno a te. Potevi soltanto fingere di farlo, e i tuoi protetti non sarebbero stati neppure capaci di fingere. Malgrado le tue molte accattivanti caratteristiche personali, c'era, ovviamente, una sola scelta per noi».
Fermo al portello, Carrsbury si voltò. Finalmente aveva recuperato la voce. Ma era rauca, funzionava a sbalzi. «Vuoi dire che, per tutti questi anni, mi avete soltanto accontentato?»
Mentre lo sportello si stava chiudendo, Phy lo fissò, senza rispondere alla domanda.
Mentre l'elicottero si allontanava, fece un saluto, agitando la mano che stringeva ancora la verde bolla del gasoide.
«Sarà molto piacevole, là dove stai andando», gridò, incoraggiante. «Un comodo alloggio, tutte le attrezzature per la ginnastica, e una completa biblioteca della letteratura del ventesimo secolo per passare il tempo».
Seguì il volto pallido e rigido di Carrsbury che guardava fuori dall'oblò panoramico, fino a quando l'elicottero non tornò a ridursi a un puntino.
Poi si voltò, si guardò le mani, si accorse del gasoide, lo gettò fuori dello sportello ancora aperto della cabina, seguì per alcuni istanti il suo volo, poi attivò il comando della discesa.
«Sono contento di aver visto per l'ultima volta quell'individuo», borbottò, più fra sé che a beneficio di Hartman, mentre la cabina scendeva rapidamente verso il tetto visibile dell'edificio. «Cominciava ad avere un'influenza assai inquietante su di me. In effetti, stavo cominciando seriamente a temere per la mia...» la sua espressione si fece, all'improvviso, vacua, «... per la mia sanità mentale».
Invarianza
Invariant
di John R. Pierce
Astounding, aprile
Il dottor John R. Pierce fu per molti anni direttore dei Bell Telephone Laboratories. Malgrado abbia fatto la sua prima comparsa sulle riviste di fantascienza nel 1930, pubblicò assai poca narrativa fantascientifica, una parte della quale con lo pseudonimo J.J. Coupling (che usò anche per alcuni saggi comparsi su Astounding). È il padre di J.J. Pierce, un ex curatore di Galaxy.
«Invarianza» è un breve, ma acuto racconto, il suo più importante contributo alla fantascienza.
(Marty ed io mettiamo insieme questi libri cominciando col prefissare il numero di storie che potranno ospitare. Marty, poi, ne sceglie il doppio di quante abbiamo deciso d'includerne, e mi spedisce le fotocopie. Io le leggo tutte e le contrassegno, a seconda dei casi, con un OK, con un ?, o con un X. Il primo gruppo è accettato, il terzo escluso, e sul secondo discutiamo. A volte, non posso farci nulla, mi scappa fuori qualche commento fuori dalla regola. Per «Invarianza», ad esempio, il mio contrassegno è stato «Capperi!». A proposito, John R. Pierce è uno di quegli scrittori di fantascienza che è un vero scienziato. Ha attivamente contribuito al lancio dei primi satelliti per telecomunicazioni (certo, un lavoro affascinante per qualche scrittore di fantascienza!) ed è stato lui a coniare la parola «transistor». I.A.)
Quello che si sa, in giro, di Homer Green, mi esimerebbe dal descrivervi sia lui che l'ambiente in cui vive. Io ne sapevo di più, eppure era una strana sensazione, che nessuna descrizione fatta da altri può rendere, vestirsi realmente in quel modo primitivo, avventurarsi là dentro, e vederlo coi propri occhi.
La casa non è più strana di quanto appaia dalle fotografie. Quand'era circondata dagli altri edifici del ventesimo secolo, la sua peculiare struttura doveva confondersi coi suoi dintorni. Entrare, camminare su quei tappeti, aggirarsi tra quelle poltrone rivestite di morbido, peloso tessuto, vedere arnesi per fumare, vedere e ascoltare una radio primitiva e funzionante (anche se con una varietà di vecchie registrazioni), e sopra ogni altra cosa scaldarsi a vere fiamme che s'innalzavano liberamente nell'aria, tutto ciò mi diede una sensazione d'irrealtà, per quanto fossi preparato. Green sedeva su una poltrona accanto al fuoco, come lo troviamo quasi invariabilmente, con un cane ai suoi piedi. È, forse, l'uomo più prezioso del mondo, pensai. Ma non riuscii a scuotermi di dosso la sensazione d'irrealtà che permeava quell'ambiente pur solido, concreto. Anche Green pareva irreale, e provai pietà per lui.
La sensazione d'irrealtà non si attenuò mentre mi presentavo. Quanti ce n'erano stati? Non era impossibile saperlo. C'era la documentazione completa.
«Mi chiamo Carew, vengo dall'Istituto», dissi. «Non ci siamo mai incontrati prima d'oggi. Ma mi hanno detto che sarebbe stato contento di vedermi».
Green si alzò in piedi, mi porse la mano e io la strinsi, obbediente, facendo quel gesto che non mi era per nulla familiare.
«Lieto di vederla», mi disse. «Mi ero appisolato, qui. Sa, quel trattamento... è quasi uno shock. Ho pensato di riposarmi per qualche giorno. Spero che sia davvero permanente.
«Non vuole sedersi?» aggiunse.
Ci sedemmo davanti al fuoco. Il cane, che era balzato su, tornò a distendersi sui piedi del suo padrone.
«Presumo che voglia saggiare le mie reazioni», disse Green.
«Più tardi», risposi. «Non c'è fretta. È così confortevole qua dentro».
Green si lasciava facilmente distrarre. Si rilassò, fissando il fuoco. Io colsi l'occasione al volo, e commentai, in tono cordiale ma deciso:
«Davvero, sembra il posto ideale, qui, per chi voglia guardare le cose del mondo con un certo distacco, no? Prenda ad esempio la situazione politica. Quella faccenda tra la Svezia e la Francia...»
«Inzuppiamo i nostri pensieri nell'allegria...» rispose Green.
Lo fissai, stupito. A giudicare dalle documentazioni, mi sarei aspettato tutt'altra risposta. Ma si rimise subito in carreggiata:
«... ma, certo, non si può inzuppare la politica nell'allegria», proseguì. «Al più, la si può esorcizzare, studiandola...»
Non mi addentrerò nella conversazione. L'avete letta nell'appendice A della mia tesi: «Uomini e discorsi politici nel Ventesimo Secolo». Come già sapete, fu breve. Ero stato molto fortunato a poter visitare Green di oersona. E ancora più fortunato ad azzeccare l'argomento giusto. Come avrei potuto altrimenti appurare che gli uomini politici del ventesimo secolo erano soliti dire ciò che realmente pensavano? Che in tutta sincerità attribuivano un significato o una rilevanza, nella loro mente, a quelle che a noi sembrano frasi senza significato o irrilevanti? È difficile spiegare un concetto così estraneo a noi; forse un esempio potrebbe essere di aiuto.
Così, credereste che un uomo, accusato di aver fatto una certa dichiarazione, potesse rispondere, in tutta serietà: «Non ho l'abitudine di fare dichiarazioni del genere?» Credereste che ciò poteva perfino significare che non aveva fatto quella dichiarazione? Oppure, credereste ulteriormente che, se anche aveva fatto davvero quella dichiarazione, poteva benissimo giudicarla un caso speciale, per cui la sua negazione d'averla fatta non gli sarebbe sembrata un'ambiguità, una falsità? Per me, tutto ciò è senz'altro plausibile, quando mi sforzo d'immergermi nel ventesimo secolo. Ma non l'avrei neppure immaginato, prima di aver parlato con Green. È davvero inestimabile, quell'uomo!
Ho già detto che la conversazione, documentata nell'appendice A, è molto breve. Una volta afferrato il concetto di base, non ebbi più alcuna necessità di andare avanti con gli argomenti politici. I documenti del ventesimo secolo in nostro possesso sono assai più completi della memoria di Green... Ciò che a me importava non era la nuda e cruda informazione obiettiva, ma il contatto personale, l'infinita varietà delle combinazioni e delle varianti dell'animo umano, inestimabili per una corretta valutazione delle cause e dello svolgersi dei fatti.
Così, ero lì con Green, e la maggior parte della mattinata ancora davanti a me. Come sapete, gli viene concessa completa libertà per l'ora dei pasti, e un solo appuntamento fra un pasto e l'altro, cosicché non vi siano sovrapposizioni. Ero grato a quell'uomo, e comprensivo, e mi sentivo un po' turbato in sua presenza. Volevo parlargli di ciò che più mi stava a cuore. Non c'era alcun motivo perché non dovessi farlo. Ho registrato anche questa conversazione, ma non l'ho pubblicata. Non è certo una cosa nuova. Forse è perfino banale, ma significa moltissimo per me. Forse è soltanto per il ricordo molto personale che ne conservo. Ma ho pensato che vi potrebbe interessare conoscerla.
«Cosa l'ha condotto alla sua scoperta?» gli chiesi.
«Le salamandre», mi rispose senza esitazioni. «Le salamandre».
Il resoconto che mi fece dei suoi famosi esperimenti sulla rigenerazione era, naturalmente, storia già pubblicata. Quante migliaia di volte è stata raccontata? Eppure, giuro di aver colto qua e là delle differenze da quanto è documentato. Le combinazioni possibili non sono quasi infinite? Ma i punti principali furono esposti nell'ordine consueto. Il modo in cui la rigenerazione degli arti nelle salamandre lo portò all'idea di una perfetta rigenerazione delle varie parti di un organismo umano. Come, diciamo, un taglio in grado di rimarginarsi senza lasciare alcuna cicatrice, ma una perfetta replica del tessuto danneggiato. O, meglio ancora, un normale ricambio metabolico in cui, però, i tessuti cellulari venissero sostituiti non imperfettamente, come in un organismo che invecchia, ma in modo perfetto, un numero indefinito di volte. Era stato già ottenuto in certi casi-limite biologici, come nelle colture di embrioni di pollo, in cui il metabolismo sostituisce i tessuti sempre nell'identica forma, invariante. È inquietante pensare la stessa cosa in un uomo. Green aveva un aspetto giovane, giovane quanto il mio. Fin dal ventesimo secolo...
Quando Green ebbe concluso il suo resoconto, completo fino all'iniezione che si era fatto quella sera... azzardò una profezia.
«Ho grande fiducia», disse, «che funzionerà, indefinitamente».
«Funziona, dottor Green», gli assicurai, «indefinitamente».
«Non dobbiamo arrischiare giudizi prematuri», mi ammonì. «Dopotutto, sarà pur sempre necessario un periodo di...»
«Sa che giorno è oggi, dottor Green?» chiesi.
«L'11 settembre», rispose. «1943, se vuole anche l'anno».
«Dottor Green, oggi è il 4 agosto 2170», ribattei, con viva emozione.
«Oh, senta», disse Green, «se lo fosse davvero, io non sarei qui, vestito in questo modo, e lei non sarebbe li, vestito in quel modo».
La posizione di stallo avrebbe potuto durare all'infinito. Tirai fuori il mio comunicatore tascabile e glielo porsi. L'osservò con crescente meraviglia, e fu deliziato quando gli mostrai il proiettore, lo stereo e il biauricolare incorporati. Non era propriamente semplice, comunque, esattamente il tipo di evoluzione, nel campo dell'elettronica, che uno scienziato dell'epoca di Green avrebbe associato col futuro. Green pareva aver dimenticato del tutto la conversazione che aveva portato alla mia esibizione del comunicatore.
«Dottor Green», dissi, «questo è l'anno 2170. Questo è il ventiduesimo secolo».
Mi fissò perplesso, ma questa volta non parve incredulo. Al contrario, i suoi lineamenti tradirono una strana forma di terrore.
«Un incidente?» chiese. «La mia memoria?»
«Non c'è stato nessun incidente», replicai. «La sua memoria è intatta, fin dove arriva. Mi ascolti. Si concentri».
Poi, glielo riferii, un modo semplice e breve, cosicché i suoi processi mentali non si attardassero. Mentre gli parlavo, mi fissò con un misto di sbalordimento e apprensione. Questo è ciò che gli dissi: «Il suo esperimento ha avuto successo, andando oltre ogni sua ragionevole speranza. I suoi tessuti hanno assunto la capacità di riformarsi esattamente secondo l'identico modello, anno dopo anno. La loro struttura è divenuta invariabile.
«Le fotografie e le più accurate misurazioni lo dimostrano, anno dopo anno e, sì, secolo dopo secolo. Lei è esattamente com'era più di duecento anni fa.
«La sua vita non è stata priva d'incidenti. Ma piccole ferite, e anche ferite più gravi, non hanno lasciato alcuna traccia, una volta rimarginate I suoi tessuti sono invariabili.
«Anche il suo cervello è invariabile, o più esattamente, il numero, la disposizione e la struttura interna delle cellule cerebrali. Un cervello può essere paragonato a una rete elettrica di un dato disegno. La memoria è la rete stessa, le bobine, i condensatori e le loro interconnessioni. Il pensiero cosciente è la risultante dei voltaggi applicati e delle correnti che vi circolano. Questo disegno è assai complesso, ma transitorio... effimero. La memoria — ossia, ciò che ad ogni istante accade, e il suo ricordo — altera continuamente questa rete cerebrale, influenzando tutti i pensieri successivi. Ma la rete del suo cervello, dottor Green, non cambia mai, è invariabile.
«Gli altri si adattano a sempre nuovi ambienti, imparano la posizione dei vari oggetti, la disposizione delle stanze... e vi si adeguano inconsciamente, senza attriti. Lei non può. Il suo cervello è invariabile. Le sue abitudini sono legate a questa casa, la sua casa com'era, esattamente, il giorno prima che lei si praticasse il trattamento. È stata conservata identica nell'arco di duecento anni, cosicché lei potesse vìverci senza attriti. E qui dentro lei vive, un giorno dopo l'altro, sempre l'identico giorno... il giorno successivo alla sera in cui lei si è sottoposto al trattamento che ha reso invariabile il suo cervello.
«Ma non deve pensare di non dar niente in cambio di tutte queste cure che ci prendiamo per lei. Perché lei, forse, è l'uomo più prezioso che ci sia al mondo. Mattino, pomeriggio, sera: lei ha tre appuntamenti al giorno, quando i pochi fortunati che vengono giudicati meritevoli, o hanno bisogno del suo aiuto, ricevono il permesso di venirla a trovare.
«La mia specializzazione è la storia. Sono venuto a vedere il ventesimo secolo attraverso gli occhi di un uomo intelligente di quel secolo. Perché lei è un uomo molto intelligente, brillante. La sua mente è stata analizzata più di quella di chiunque altro, fin nei particolari. Pochi cervelli sono migliori. Sono venuto a imparare, dal suo cervello, acutamente osservatore, cosa significasse la politica per un uomo del suo periodo. E l'ho appreso da una fonte fresca, nuova, il suo cervello, al quale non si sono sovrapposti, causando cambiamenti, gli anni successivi, per cui si è conservato esattamente com'era nel 1943.
«Ma io non sono, dopotutto, granché importante. Gente molto più importante di me viene a trovarla, gli psicologi, soprattutto. Le fanno domande, gliele ripetono in un modo un po' diverso, e osservano le sue reazioni. E ogni esperimento si svolge in condizioni ideali, poiché non viene viziato dal suo ricordo di un esperimento precedente. Quando la sua catena di pensieri s'interrompe, non lascia nessun ricordo dietro di sé. Il suo cervello è invariabile. E questi specialisti, che altrimenti potrebbero trarre soltanto conclusioni generiche da esperimenti grossolani condotti su moltitudini d'individui diversi per costituzione ed esperienza, possono osservare inconfutabili diversità di reazione, su di lei, prodotte anche da minime variazioni negli stimoli. Alcuni di questi studiosi l'hanno sottoposta a sollecitazioni che avrebbero fatto impazzire chiunque. Ma lei non impazzisce: il suo cervello non può cambiare: è invariabile.
«Lei è tanto prezioso che, vien fatto di pensare, il mondo non potrebbe progredire senza il suo cervello invariabile. Eppure, non abbiamo chiesto a nessun altro di fare ciò che ha fatto lei. Con gli animali, sì. Il suo cane ne è un esempio. Ma ciò che lei ha fatto, lo ha fatto di sua volontà, e non ne sapeva le conseguenze. Ha reso ai mondo il più grande dei servigi, senza saperlo. Ma noi io sappiamo».
Green aveva reclinato la testa sul petto. Il suo volto era turbato, e pareva cercare sollievo nei calore del fuoco. Il cane ai suoi piedi si mosse, e Green abbassò lo sguardo, con un improvviso sorriso sul volto. Seppi che la sua catena di pensieri si era interrotta. I transistori si erano spenti nel suo cervello. L'intero nostro incontro era scomparso dai suoi processi cerebrali.
Mi alzai in piedi e uscii furtivo, prima che risollevasse lo sguardo. Forse avevo sprecato quell'ora del mattino che mi era rimasta.
City
City
di Clifford D. Simak
Astounding, maggio
Clifford D. Simak fece la sua prima comparsa sulle riviste di fantascienza con «The World of the Red Sun» (Il mondo del sole rosso) in Wonder Stories nel 1931, perciò era un veterano fra gli scrittori di fantascienza, con tredici anni di esperienza, quando «City» fu pubblicato. Malgrado fosse ben conosciuto, non veniva considerato al livello di Heinlein, Kuttner, Van Vogt, e altri. Questa valutazione cominciò a cambiare con i tre racconti di questo libro, e altri che seguirono, e Cliff Simak si rivelò definitivamente negli anni cinquanta come uno dei più grandi talenti di tutta la fantascienza.
«City» fu il primo racconto di una serie che, con l'aggiunta di adeguato materiale di collegamento, comparve in forma di libro (come «City») nel 1952, conquistando l'International Fantasy Award nel 1953, sconfiggendo concorrenti della levatura di «Player Piano» di Kurt Vonnegut. Scritto in un'epoca in cui l'impatto dell'urbanizzazione nella vita moderna ancora non incontrava critiche né tra il grande pubblico, né tra gli studiosi di sociologia, pure, il suo generoso perorare in favore della vita pastorale e dei valori rurali ottenne un immenso favore.
(Questa è la prima volta che una storia scritta da Cliff compare in questa serie di antologie, così, non ho mai avuto la possibilità, prima d'ora, di dire a Cliff cosa abbia significato la sua opera per me. «The World of the Red Sun» fu un racconto che inchiodò il mio «io» undicenne, quando comparve la prima volta. Era una delle storie che raccontavo ai miei compagni, a scuola, quando si raccoglievano intorno a me per usufruire dell'unico genere di fantascienza che potevano permettersi. E il bello è che soltanto molti anni dopo, quando Cliff divenne mio buon amico, scoprii che era stato lui a scriverlo. E, come Marty ha detto, fu il suo primo racconto pubblicato. Clifford Simak fu uno dei pochi scrittori pre-Campbell che seppe crescere e diventare un grande scrittore dell'«era di Campbell». I.A.)
Gramp Steven se ne stava comodo sulla sedia rustica, seguendo con lo sguardo la falciatrice al lavoro, assaporando il dorato calore del sole che s'insinuava tra le sue ossa. La falciatrice raggiunse il confine del prato, chiocciò tra sé come una gallina soddisfatta, piroettò su se stessa e si avviò ad affrontare un'altra striscia. Il sacco che conteneva l'erba tagliata era rigonfio.
D'improvviso, la falciatrice si arrestò, e ticchettò eccitata. Un pannello sul suo fianco si aprì di colpo e un braccio simile a quello di una gru si proiettò fuori. Robuste dita d'acciaio frugarono tra l'erba e ne uscirono, trionfanti, tenendo ben stretta una pietra, lasciarono cadere la pietra in un piccolo contenitore, e tornarono a scomparire d'entro il pannello. La falciatrice gorgogliò, riprese a ronzare, e ripartì, seguendo la striscia d'erba.
Gramp la fissò sospettoso, brontolando.
«Un giorno», disse tra sé, «quel dannato affare mancherà un sasso, e si farà venire un esaurimento nervoso».
Si lasciò andare sullo schienale e fissò il cielo inondato di sole. Un elicottero passò alto sopra di lui. Da qualche parte, dentro la casa, una radio si accese e ne uscì un'esplosione assordante di musica. Gramp, nell'udirla, rabbrividì, e si raggomitolò ancora di più sulla sedia.
Charlie, quel dannato ragazzo, si stava dedicando a una ennesima seduta di quegli assurdi contorcimenti che chiamava ballo.
La falciatrice passò chiocciando, e Gramp la fissò, scherzosamente, in cagnesco.
«Automatica», disse, rivolto a! cielo. «Ogni dannato affare oggi è automatico. Stiamo arrivando al punto che ci si apparta in un angolo con una macchina, le si bisbiglia all'orecchio, e quella scappa via a fare il lavoro».
La voce di sua figlia gli giunse dalla finestra, strillando per sovrastare la musica:
«Papà!»
Gramp si mosse inquieto. «Sì, Betty?»
«Adesso, papà, cerca di spostarti quando quella falciatrice arriva lì da te. Non cercare di esser più cocciuto di lei. Dopotutto è soltanto una macchina. L'ultima volta, te ne sei rimasto seduto là, impedendole di tagliare l'erba sotto di te. Non ti ho visto fare neanche un tentativo di muoverti».
Gramp non rispose, e lasciò che la sua testa ciondolasse un po', sperando di farle credere che lui dormiva, convincendola a lasciarlo tranquillo.
«Papà», strillò di nuovo la donna. «Mi hai sentito?»
Capì che non serviva. «Sicuro, ti ho sentito», bofonchiò. «Stavo giusto per spostarmi».
Si alzò lentamente, appoggiandosi pesantemente al bastone. Tanto valeva che la facesse sentire dispiaciuta per il modo in cui lo trattava, facendole vedere quanto vecchio e debole lui stava diventando. Doveva andar cauto, comunque. Se Betty avesse saputo che lui non aveva affatto bisogno del bastone, gli avrebbe trovato subito del lavoro da fare; ma, d'altro canto, se avesse esagerato, sua figlia avrebbe fatto venire quello sciocco del dottore a infastidirlo di nuovo.
Brontolando, spostò la sedia di Iato, nella porzione di prato che era stata tosata. La falciatrice, sfiorandolo al passaggio, ridacchiò diabolica, beffeggiandolo.
«Un giorno», le disse Gramp, «ti tirerò una sberla e ti farò saltare una rotella o due».
La falciatrice gli fece il verso del clacson e proseguì senza scomporsi attraverso il prato.
Da qualche parte, sulla strada erbosa, gli giunse uno sferragliare metallico, un tossicchiare intermittente.
Gramp, che stava per rimettersi seduto, si raddrizzò e tese l'orecchio.
Il rumore gli giunse più forte, il frastuono dell'accensione anticipata di un motore recalcitrante, il rumore di parti metalliche allentate.
«Un'automobile!» esclamò Gramp. «Un'automobile, caspita!»
Fece per lanciarsi al galoppo verso il cancello, ma all'improvviso ricordò d'essere vecchio e stanco e si limitò a un rapido zoppichio.
«Dev'essere quel pazzo di Ole Johnson», disse tra sé. «È l'unico rimasto che abbia un'automobile. È troppo cocciuto per rinunciarci».
Era Ole.
Gramp raggiunse il cancello in tempo per vedere la vecchia, decrepita e arrugginita automobile svoltare l'angolo sobbalzando, dondolando e scoppiettando, lungo la strada in disuso. Il vapore usciva sibilando dal radiatore surriscaldato, e una nuvola di fumo azzurrastro sgorgava dallo scappamento che aveva perduto la sua marmitta cinque o più anni or sono.
Ole sedeva flemmatico al volante, socchiudendo gli occhi, cercando di evitare i punti più scabrosi, anche se era difficile riuscirci, poiché erbacce e rovi avevano coperto la strada ed era difficile vedere cosa si trovava sotto.
Gramp agitò il bastone.
«Ciao, Ole!» gridò.
Ole si arrestò, tirando il freno di emergenza. L'auto rantolò, fremette, tossì, e si spense con un orribile sospiro.
«Cosa bruci?» gli chiese Gramp.
«Un po' di tutto», disse Ole. «Kerosene, un po' di vecchio olio per trattori che ho trovato in un fusto, un po' di alcool denaturato».
Gramp guardò quell'auto veterana con schietta ammirazione. «Bei tempi, erano», sospirò. «Anch'io ne avevo una: era capace di fare cento miglia all'ora».
«Funzionano ancora», replicò Ole. «Se soltanto si riesce a trovare la roba per farle marciare o i pezzi di ricambio. Fino a tre, quattro anni fa riuscivo a procurarmi abbastanza benzina, ma è parecchio tempo, ormai, che non ne ho più vista. Hanno smesso di fabbricarla. Non vale la pena aver benzina, dicono, quando c'è l'energia atomica».
«Certo», annuì Gramp. «Immagino che probabilmente sia giusto così, ma non si può annusare l'energia atomica. È la cosa più soave che io conosca, l'odore della benzina che brucia. Tutti questi elicotteri, e le altre trappole, hanno in qualche modo tolto ai viaggi tutto il loro fascino».
Sbirciò i fusti e le ceste ammucchiati sul sedile posteriore.
«Hai ortaggi?» chiese.
«Già», disse Ole. «Un po' di granturco dolce epatate novelle e qualche cesta di pomodori. Ho pensato che forse sarei riuscito a venderli».
Gramp scosse il capo. «Non ci riuscirai, Ole. Non li compreranno. La gente si è messa in testa che quella nuova roba idroponica è l'unica sbobba ortofrutticola che sia commestibile. Più igienica, dicono, più saporita».
«Non darei un fico secco per tutto quello che fanno crescere in quei loro serbatoi», dichiarò Ole, in tono bellicoso. «Quella roba, per me, non ha il sapore giusto. Come dico sempre a Martha, il cibo dev'essere fatto crescere dal terreno, perché abbia carattere».
Abbassò la mano alla chiavetta dell'accensione.
«Non so se valga la pena tentare di portare questa roba in città», disse, «visto come mantengono le strade. Ò meglio, come non le mantengono. Vent'anni fa, l'autostrada statale era una striscia di buon cemento, la riparavano a regola d'arte e la spidocchiavano ad ogni inverno. Facevano qualunque cosa, spendevano dei buoni soldi, per tenerla in perfette condizioni. Oggi, semplicemente, se ne sono dimenticati. Il cemento è tutto crepato, e interi tratti sono stati spazzati via dalla pioggia. Ci crescono dentro i rovi. Stamattina ho dovuto scender giù e segare un albero che era caduto di traverso».
«È proprio vero», fu d'accordo Gramp.
La macchina si animò con un fragoroso scoppio, tossendo e sputacchiando. Una nuvola di denso fumo azzurrastro uscì da sotto. Con un sussulto, si mosse, avviandosi goffa e pesante lungo la strada.
Gramp tornò con passo lento e affaticato alla sua sedia, e la trovò gocciolante d'acqua. La falciatrice automatica, avendo terminato il suo lavoro di taglio, aveva srotolato l'idrante e stava annaffiando il prato.
Biascicando le più velenose minacce, Gramp aggirò a grandi passi l'angolo della casa e prese posto sulla panca, nella veranda posteriore. Non gli piaceva seder là, ma era l'unico posto dove fosse al sicuro da quella macchina scatenata.
Tanto per cominciare, il panorama che si godeva da quella panca era alquanto deprimente, poiché dava su una successione di strade vuote, case deserte e giardini incolti invasi dalle erbacce.
Comunque, un vantaggio c'era. Da quella panca poteva fingersi un sordo e non udire i richiami sopra la musica indiavolata che la radio stava sfornando a pieno volume.
Una voce lo chiamò dal prato, sul davanti.
«Bill! Bill! Dove sei?»
Gramp si voltò.
«Sono qui, Mark. Dietro la casa. Al riparo da quella dannata falciatrice».
Mark Bailey aggirò zoppicando l'angolo della casa, la sigaretta accesa che minacciava d'incendiare i suoi baffi cespugliosi.
«Un po' presto per la partita, no?» disse Gramp.
«Niente partita, oggi», fece Mark.
Gramp si girò di scatto a fissarlo: «Te ne vai!»
«Già. Mi trasferisco fuori, in campagna. Lucinda ha finalmente convinto Herb. In verità, non gli ha dato requie. Ha sempre insistito che tutti si trasferivano in una di quelle belle tenute in campagna, e non vedeva nessuna ragione perché non potessimo farlo anche noi».
Gramp deglutì. «Dove?»
«Non lo so di preciso», disse Mark. «Non ci sono mai stato. Su al nord, da qualche parte. Vicino a uno dei laghi. Abbiamo preso dieci acri di terra. Lucinda ne voleva cento, ma Herb ha puntato i piedi e ha detto che dieci bastavano. Dopotutto, una casa e uno scampolo di giardino in città ci sono stati più che sufficienti, tutti questi anni».
«Anche Betty ha ossessionato Johnny», disse Gramp, «ma lui tiene duro. Dice che proprio non può farlo. Dice che non gli sembra giusto che proprio lui, segretario della Camera di Commercio e tutto il resto, si allontani dalla città».
«La gente è matta da legare», commentò Mark.
«Oh, puoi dirlo», ribadì Gramp. «Matta per la campagna, ecco cos'è. Guarda laggiù».
Tese la mano verso le strade fiancheggiate dalle case vuote. «Ricordo ancora quando questo quartiere era il più bel gruppo di case su cui avessi mai messo l'occhio. Buoni vicini, erano. C'era un continuo via vai di donne, fra le porte sul retro, per scambiarsi ricette. E quando gli uomini uscivano fuori a tagliar l'erba, ben presto le falciatrici se ne restavano in ozio, perché tutti si radunavano a scambiare quattro chiacchiere. Gente cordiale, Mark. E guarda adesso, com'è».
Mark si agitò, incerto. «Devo tornare, Bill. Ho fatto un salto fin qua di nascosto per dirti che stavamo sbaraccando. Lucinda mi ha messo a fare le valige. Si arrabbierebbe se sapesse che sono corso fuori».
Gramp si alzò, rigido, e gli porse la mano. «Ti rivedrò? Verrai per un'ultima partita?»
Mark scosse la testa. «Temo di no, Bill».
Si strinsero la mano imbarazzati, confusi. «Certo che la partita... mi mancherà», disse Mark.
«Anche a me mancherà», annuì Gramp. «Non avrò più nessuno, quando te ne sarai andato».
«Addio, Bill», disse Mark.
«Addio», disse Gramp.
Rimase lì, in piedi, gli occhi fissi sul suo amico che svoltava, zoppicando, l'angolo, sentì il gelido artiglio della solitudine allungarsi e toccarlo con le sue dita di ghiaccio. Una terribile solitudine. La solitudine dell'età... dell'età e di chi sente di appartenere a un'epoca superata. Perché lui apparteneva a un'altra epoca. Aveva superato il suo tempo, era vissuto oltre i suoi anni. Gli occhi offuscati, cercò a tastoni il bastone appoggiato alla panca e lentamente si avviò al cancello sconnesso che si apriva sulla strada deserta dietro la casa
Gli anni erano passati troppo in fretta. Anni che avevano portato l'aeroplano e l'elicottero di famiglia, lasciando che l'automobile arrugginisse in qualche angolo dimenticato, e che le strade abbandonate andassero in rovina. Anni che avevano praticamente spazzato via la coltivazione della terra, con l'avvento delle colture idroponiche. Anni che, con la scomparsa delle fattorie come entità economiche, avevano portato all'acquisto dei terreni a prezzi stracciati, che avevano mandato la gente di città a sparpagliarsi per le campagne, dove ogni uomo, per un prezzo inferiore a quello di un appartamento in città, poteva concedersi la proprietà di molti acri. Anni che avevano rivoluzionato le tecniche costruttive al punto che le famiglie, semplicemente, lasciavano la loro vecchia casa per la nuova che poteva essere acquistata, nella forma e dimensioni volute, per meno della metà del prezzo di un edificio d'anteguerra, e poteva subire, a un costo minimo, tutte le modifiche richieste dalla necessità di nuovo spazio, o soltanto per un momentaneo capriccio.
Gramp sbuffò. Case che potevano esser cambiate ogni anno, proprio come si cambiavano i mobili. Che razza di vita era quella?
Avanzò strascicando i piedi sul sentiero polveroso che era quanto restava di quella che pochi anni prima era stata una frequentatissima strada in un quartiere residenziale. Una strada di fantasmi, ora, si disse Gramp... di piccoli fantasmi furtivi che sussurravano nella notte. Fantasmi di bambini che giocavano, fantasmi di tricicli e carrettini rovesciati. Fantasmi di casalinghe che spettegolavano. Fantasmi di saluti gridati da una casa all'altra. Fantasmi di caminetti accesi e camini fumanti in una notte d'inverno.
Piccoli sbuffi di polvere s'innalzavano intorno ai suoi piedi, imbiancandogli il risvolto dei calzoni.
Sull'altro lato della strada c'era la casa del vecchio Adams. Adams ne era stato tremendamente orgoglioso, lo ricordava assai bene. Pietra grigia sul davanti e finestre panoramiche. Adesso, la pietra era inverdita per il muschio strisciante e le finestre fracassate si aprivano in un silenzioso, spettrale sghignazzare. Le erbacce soffocavano il giardino e nascondevano il portico. Un olmo spingeva i propri rami contro il frontone. Gramp ricordava il giorno in cui Adams aveva piantato quell'olmo.
Per un attimo si arrestò in quella strada coperta di erbacce, i piedi nella polvere, stringendo con entrambe le mani il manico del bastone, gli occhi chiusi. Attraverso la nebbia degli anni udì le grida dei bambini che giocavano, l'abbaiare festoso del cane di Conrad, laggiù, in fondo. E c'era Adams, nudo fino alla cintola, con in pugno il badile, che scavava la buca, e accanto a lui l'olmo, le radici avvolte in una tela di sacco, che aspettava, disteso sul prato.
Maggio 1946. Quarantaquattro anni prima. Lui e Adams erano appena tornati a casa, insieme, dalla guerra.
Un rumore di passi si udì sulla polvere, e Gramp, sorpreso, aprì gli occhi. Davanti a lui c'era un giovanotto. Un uomo di trent'anni, o forse un po' meno.
«Buongiorno», disse Gramp.
«Spero», disse il giovanotto, «di non averla spaventata».
«Mi ha visto qui fermo», chiese Gramp, «come un dannato imbecille, gli occhi chiusi?»
Il giovanotto annuì.
«Stavo ricordando», disse Gramp.
«Vive da queste parti?»
«Subito in fondo alla strada. L'ultimo, in questa parte della città».
«Allora, potrà forse aiutarmi?»
«Provi», annuì Gramp.
Il giovanotto balbettò: «Be', capisce... si tratta di questo. Sto facendo una specie di... già, potrebbe chiamarlo un pellegrinaggio sentimentale...»
«Capisco», fece Gramp. «Anch'io».
«Mi chiamo Adams», disse il giovane. «Mio nonno un tempo abitava qui, da qualche parte. Mi chiedo se...»
«Proprio lì di fronte», indicò Gramp.
E rimasero fermi, in silenzio, a guardare la casa.
«Era un bel posto, una volta», riprese Gramp. «È stato suo nonno a piantare quell'albero, subito dopo esser tornato dalla guerra. Ero stato con lui per tutta la durata della guerra e tornammo a casa insieme. Quello fu davvero un gran giorno, per suo...»
«Peccato», disse il giovane Adams. «Peccato...»
Ma Gramp parve non averlo udito. «Suo nonno?» chiese. «Ne ho perso le tracce da un bel po'...»
«È morto», disse il giovane Adams. «Molti anni fa».
«Si era lasciato coinvolgere dall'energia atomica», disse Gramp.
«Si, proprio così», annuì Adams con una nota d'orgoglio. «Vi si dedicò non appena fu lasciata disponibile per l'industria. Subito dopo l'accordo di Mosca».
«Non appena decisero che non avrebbero più potuto combattere una guerra», aggiunse Gramp.
«Sì, appunto», fece Adams.
«È piuttosto difficile combattere una guerra quando non c'è niente a cui mirare», osservò Gramp.
«Certo», assentì Gramp. «Che cosa buffa, è stata. Si poteva agitare sotto il naso della gente la minaccia di tutte le bombe immaginabili, e non si riusciva a spaventarla. Ma è bastato offrirgli della terra a poco prezzo e aeroplani di famiglia, e si sono sparpagliati dappertutto come tanti maledetti conigli».
John J. Webster stava salendo a grandi passi gli ampi gradini di pietra del municipio quando quello spaventapasseri ambulante, un fucile sotto il braccio, lo raggiunse e lo fermò.
«Come va, signor Webster?» fece lo spaventapasseri.
Webster lo fissò, e riconobbe il volto raggrinzito.
«Oh, Levi», esclamò. «Come vanno le cose, Levi?»
Levi Lewis sogghignò coi suoi denti sbrecciati. «Oh, abbastanza bene. Gli orti prosperano, e le nuove covate di conigli tra poco saranno a puntino per i nostri arrosti».
«Non sei mica immischiato in quella faccenda delle case che ha fatto tanto chiasso?» chiese Webster.
«No, signore», dichiarò Levi. «Nessuno di noi occupanti abusivi è immischiato in infrazioni di nessun genere. Siamo gente che rispetta la legge e timorata di Dio, noi. L'unica ragione per cui siamo qui è che non possiamo trovar da vivere da nessun'altra parte. E noi che viviamo in quei posti che altra gente ha abbandonato non facciamo del male a nessuno. La polizia c'incolpa delle ruberie e di ogni altra cosa che accade, sapendo che non possiamo difenderci. Fanno di noi il capro espiatorio».
«Sono lieto di sentirti dir questo», replicò Webster. «Il capo vuol bruciare le case».
«Se ci proverà», dichiarò Levi, «si troverà ad affrontare qualcosa che non ha preso in considerazione. Ci hanno cacciato fuori dalle nostre fattorie con quei loro serbatoi agricoli, ma non ci cacceranno ancora».
Sputò sui gradini.
«Per caso, non ha qualche spicciolo che le avanza?» chiese. «Ho appena finito le cartucce, e con quei conigli che stanno venendo su...»
Webster si cacciò le dita nel taschino del panciotto e tirò fuori un mezzo dollaro.
Levi sogghignò. «È gentile da parte sua, signor Webster. Le porterò una bella porzione di arrosto...»
L'abusivo si toccò il cappello con due dita e ridiscese i gradini col sole che luccicava sulla canna del fucile. Webster riprese a salire la gradinata.
La seduta del consiglio comunale era in pieno svolgimento, quando entrò nella sala.
Il capo della polizia, Jim Maxwell, era in piedi accanto al tavolo. Il sindaco Paul Carter stava parlando.
«Non credi di andare un po' troppo in fretta, Jim, nell'esigere una simile linea d'azione nei confronti delle case?»
«No, non lo credo affatto», replicò il capo. «Salvo per un paio di dozzine, o giù di lì, nessuna di quelle case è occupata dai legittimi proprietari, o meglio, dai loro proprietari d'origine. Ognuna di esse appartiene adesso alla città, essendo state confiscate per il mancato pagamento delle tasse. Non sono altro che una minaccia, una fonte continua di preoccupazioni. Non hanno nessun valore, neppure come materiale di recupero. Il legno? Non usiamo più il legno, la plastica è migliore. La pietra? Oggi usiamo l'acciaio, invece della pietra. Non una di quelle case contiene materiale che abbia anche un minimo valore di mercato.
«E nel frattempo, stanno diventando il rifugio di piccoli delinquenti e ogni tipo d'indesiderabili. I quartieri residenziali, coperti di vegetazione come sono, costituiscono il nascondiglio ideale per un gran numero di criminali. Quando un uomo si rende colpevole d'un delitto, subito va a nascondersi tra le case... e una volta là dentro, è al sicuro, poiché io potrei mandare là in mezzo anche mille uomini, e quello può benissimo evitarli tutti.
«Quelle case non valgono neppure la spesa di abbatterle. Eppure sono, se non una minaccia, un grosso fastidio. Dobbiamo sbarazzarci di esse, e il fuoco è soltanto il modo più economico. Useremo tutte le precauzioni».
«E l'aspetto legale?» chiese il sindaco.
«Ho controllato. Un uomo ha il diritto di distruggere la sua proprietà in qualunque modo giudichi adatto, fintanto che non danneggia le proprietà altrui. La stessa legge, suppongo, vale per una municipalità».
Il consigliere comunale anziano Thomas Griffin balzò in piedi.
«Vi alienerete le simpatie di un sacco di gente», dichiarò. «Brucerete un sacco di vecchie case coloniali. La gente ha ancora qualche legame sentimentale...»
«Se gliene importasse davvero», ribatté il capo, «avrebbero pagato le tasse e si sarebbero preoccupati di non farle cadere in rovina. Perché mai sono corsi in campagna, allora, lasciando le case abbandonate? Chiedetelo a Webster, qui. Potrà dirvi quanto successo ha avuto, nel suo tentativo d'interessare la gente alle case degli avi».
«Stai parlando di quella farsa della Settimana della Vostra Vecchia Casa?» disse Griffin. «È fallita. Com'era naturale che fallisse. Webster li ha bombardati con una propaganda così martellante, che si sono sentiti soffocare. Questo succede quando si ha una mentalità da Camera di Commercio».
Il consigliere anziano Forrest King s'intromise, alzando la voce: «Non c'è niente di sbagliato nella Camera di Commercio, Griffin. Soltanto perché tu non hai avuto successo negli affari, non c'è ragione di...»
Griffin lo ignorò. «I giorni della continua pressione sulla gente sono finiti, signori. Finiti per sempre. La pubblicità tutta chiasso e volgarità è morta e sepolta.
«I giorni in cui potevate organizzare la giornata del granturco o del dollaro o immaginarvi questa o quella finta celebrazione e tirar fuori bandiere e altre decorazioni e radunare grandi folle pronte a spendere un sacco di soldi, sono finiti da molti anni. Soltanto voi sembra che non lo sappiate.
«Il successo di simili imprese era legato sull'attrattiva che esercitavano sulla psicologia e la lealtà civica della folla. Ma non può più esserci lealtà civica in una città che sta morendo sulle sue rovine. Non potete appellarvi alla psicologia di massa quando di masse non ce ne sono... quando ogni uomo, o quasi ogni uomo, gode della solitudine e della libertà di quaranta acri».
«Signori», protestò il sindaco, «signori, siamo andati fuori tema».
King si rianimò borbottando e calò un pugno sul tavolo:
«No, che le cose si dicano chiare e tonde. Webster è lì. Forse potrà dirci cosa ne pensa».
Webster si mosse a disagio. «Non credo davvero di aver qualcosa da dire», replicò.
«Oh, lasciamo perdere», fece Griffin, e tornò a sedersi.
Ma King rimase in piedi, il volto paonazzo, la bocca tremante per la rabbia.
«Webster!» urlò.
Webster scosse la testa.
«Sei venuto qui con una delle tue grandi idee», urlò King. «Avevi intenzione di esporla al consiglio. Vieni avanti, uomo, e di' la tua». Webster si alzò lentamente, con un'espressione dura sulla faccia.
«Forse hai la testa troppo dura», dichiarò, rivolgendosi a King, «per capire come mai mi risento per il modo in cui ti comporti».
King lo fissò a bocca aperta, poi esplose: «Testa troppo dura! Osi dir questo a me? Abbiamo lavorato insieme, e io ti ho aiutato. Non ti sei mai comportato così, prima... Hai...»
«Non ti ho mai detto questo, prima», replicò Webster, senza scomporsi. «No, infatti. Volevo conservare il mio lavoro».
«Be', non hai più un lavoro», ruggì King. «Da questo momento in poi, non hai più un lavoro».
«Chiudi il becco», disse Webster.
King lo fissò, sbalordito, come se qualcuno gli avesse dato uno schiaffo.
«E siediti», aggiunse Webster, e la sua voce trapassò la sala come una lama affilata.
King sentì le ginocchia che gli cedevano, e si sedette di colpo. Il silenzio era palpabile.
«Ho qualcosa da dirvi», cominciò Webster. «Qualcosa che avrebbe dovuto essere detto molto tempo fa. Qualcosa che voi tutti avreste dovuto capire. Ciò che mi stupisce di più è che debba essere io a dirvelo. Tuttavia, forse, avendo io lavorato facendo gli interessi di questa città per quasi quindici anni, sono la persona più indicata per dirvi la verità.
«Il consigliere anziano Griffin ha detto che la città sta morendo sulle sue rovine, e la sua affermazione è giusta. Vi trovo un solo errore, ed è in realtà una sottovalutazione. La città... questa città, e qualunque altra città... è già morta.
«La città è un anacronismo. È sopravvissuta alla sua utilità. Le vasche idroponiche e gli elicotteri hanno segnato la sua condanna. All'inizio la città era un luogo tribale, un punto in cui le tribù si univano insieme per mutua protezione. Più tardi, per ulteriore protezione, un muro fu eretto intorno alla città. In seguito, il muro finì per scomparire, ma la città continuò a vivere per i vantaggi che offriva al commercio e ad ogni altro traffico. Ha continuato a vivere fino ai tempi moderni, perché la gente era costretta a vivere vicina ai propri lavori, e i lavori erano in città.
«Ma oggi, ciò non è più vero. Con l'aeroplano di famiglia, una distanza di cento miglia è assai piccola, a confronto delle cinque miglia del 1930. Gli uomini possono volare per molte centinaia di miglia per andare al lavoro e tornare alle rispettive case alla fine della giornata. Non c'è più alcun bisogno, per gli uomini e le loro famiglie, di vivere chiusi in una città.
«L'automobile diede inizio a questa tendenza, e l'aeroplano l'ha portata alle estreme conseguenze. Perfino nella prima metà del secolo la tendenza era avvertibile — un movimento di allontanamento dalla città, dalle sue tasse e dalla sua mancanza di aria pura, una tendenza a spostarsi verso i sobborghi e gli acri di verde intorno ad essi. Molti sono rimasti così a lungo in città soltanto per la mancanza di trasporti adeguati e di mezzi finanziari. Ma adesso, con l'agricoltura delle vasche idroponiche che ha praticamente azzerato il valore dei terreni, un uomo può acquistare enormi estensioni di terreno, in campagna, spendendo meno di quanto gli sarebbero costati pochi metri quadrati in città, quarant'anni or sono. E con gli aerei alimentati dai motori a energia nucleare non esiste più il problema del costo elevato dei trasporti».
Fece una pausa, nel più completo silenzio. Il sindaco aveva un'espressione sconvolta. Le labbra di King si mossero, ma non ne usci una sola parola. Griffin sorrideva.
«Così, cos'abbiamo adesso?» chiese Webster. «Ve lo dico io, cosa abbiamo. Strada dopo strada, isolato dopo isolato, una sterminata successione di case deserte, case dove la gente si è alzata in piedi e se n'è andata via, semplicemente. Perché avrebbero dovuto rimanere? Cosa poteva offrirgli la città? Nessuna delle cose che aveva offerto alle generazioni prima di loro, poiché il progresso aveva spazzato via la necessità dei benefici offerti dalla città. Quando la gente ha lasciato le sue case, ha perduto qualcosa, naturalmente, il valore commerciale della cosa stessa, forse. Ma il fatto di poter acquistare una casa il doppio migliore con una spesa della metà, il fatto di poter vivere come desideravano, di potersi creare, in pratica, una tenuta di famiglia, secondo la miglior tradizione indicata loro dai ricchi di una generazione prima, tutte queste cose erano più importanti del fatto di dover lasciare le loro vecchie case.
«E adesso cosa ci rimane? Pochi isolati di uffici, pochi acri d'impianti industriali. Un governo di cittadini pronto a prendersi cura di un milione di cittadini... senza che il milione ci sia. Un bilancio che ha fatto salire talmente le tasse che perfino le imprese commerciali finiranno per trasferirsi, per sfuggire a questa insostenibile pressione. E le confische ci hanno lasciato con un gran numero di proprietà prive di qualunque valore. Ecco cosa ci è rimasto.
«E se siete ancora convinti che la risposta possa venire dalla Camera di Commercio, dalle chiassose e volgari campagne pubblicitarie, da questa o quella assurda iniziativa, allora siete pazzi. C'è soltanto una risposta, ed è assai semplice. La città, come istituzione umana, è morta. Potrà ancora dibattersi per qualche anno nell'agonia, ma questo è tutto».
«Signor Webster...» cominciò il sindaco.
Ma Webster non gli prestò attenzione.
«Se non fosse per ciò che è successo oggi», proseguì, «sarei rimasto al mio posto e avrei giocato con voi alla casa della bambola. Avrei continuato a illudere me stesso e voi. Ma esiste, signori, una cosa che si chiama dignità umana».
Quel silenzio di ghiaccio fu interrotto da un frusciare di carte e il tossicchiare di qualche ascoltatore imbarazzato.
Ma Webster non aveva finito.
«La città è fallita», disse, «ed è bene che sia fallita. Invece di starvene qui a piangere sul suo corpo infranto, dovreste alzarvi in piedi e gridare i vostri ringraziamenti perché è fallita».
«Perché, se questa città non fosse sopravvissuta come un fantasma alla sua utilità — come ogni altra città ha fatto — se le città del mondo non fossero state abbandonate, sarebbero state distrutte. Vi sarebbe stata una guerra, signori, una guerra nucleare. Vi siete dimenticati degli anni cinquanta e sessanta? Vi siete dimenticati di quando vi svegliavate, di notte, aspettandovi di udire l'arrivo della bomba, sapendo che non l'avreste udita quando fosse arrivata, sapendo che non avreste mai udito più niente, se fosse arrivata?»
«Ma le città sono state abbandonate, le industrie si sono disperse, non ci sono stati più bersagli, e non c'è stata la guerra».
«Alcuni di voi, signori», esclamò, «molti di voi, signori, sono vivi, oggi, perché la gente ha lasciato la vostra città».
«Adesso, per l'amor di Dio, lasciate che rimanga morta. Siate felici che sia morta. È la cosa migliore che sia accaduta in tutta la storia umana».
John J. Webster girò sui tacchi e lasciò la sala.
Fuori, sugli ampi gradini di pietra, si fermò e alzò gli occhi al cielo sereno, vide i piccioni che volavano in cerchio sulle torrette e le guglie del municipio.
Si scrollò mentalmente, come un cane uscito da una piscina.
Era stato sciocco, naturalmente. Adesso avrebbe dovuto dar la caccia a un lavoro, e avrebbe potuto volerci del tempo per trovarne uno. Stava diventando un po' vecchio, per dar la caccia a un lavoro.
Ma, malgrado questi pensieri, un motivetto gli salì spontaneo alle labbra. Si allontanò a passo svelto, le labbra increspate, fischiando silenziosamente. Niente più ipocrisie! Basta col restare sveglio la notte, chiedendosi cosa fare... sapendo che la città era morta, sapendo che quello che stava facendo era un lavoro inutile, dovendo guizzare tra la coscienza e il codice morale, peggio di un'anguilla, per accettare uno stipendio che sapeva di non essersi guadagnato. Avvertendo la curiosa, fastidiosa sensazione del lavoratore che sa di svolgere un lavoro improduttivo.
S'incamminò verso il parcheggio, diretto al suo elicottero.
Adesso, forse, si disse, avrebbero potuto trasferirsi in campagna, come Betty voleva. Forse avrebbe potuto passare le serate a passeggiare su un vasto terreno che gli apparteneva, con un ruscello, magari. Sì, doveva esserci un ruscello, e brulicante di trote.
Si fece un appunto mentale: quella stessa sera sarebbe salito fino al solaio, per controllare la sua attrezzatura di mosche artificiali.
Martha Johnson stava aspettando sul cancello dell'aia, quando la vecchia macchina arrivò lungo il sentiero, scoppiettando.
Ole ne discese irrigidito, il volto segnato dalla stanchezza.
«Venduto niente?» chiese Martha.
Ole scosse la testa. Non c'è niente da fare. Non vogliono comperare roba coltivata in fattoria. Mi hanno riso dietro. Mi hanno mostrato pannocchie di mais due volte più grandi di quelle che avevo io, altrettanto dolci e con più file di chicchi. Mi hanno mostrato meloni che quasi non avevano scorza. E per di più con un miglior sapore, mi hanno detto».
Tirò un calcio a una zolla, che esplose in polvere.
«No, non c'è modo di farcela», dichiarò. «L'agricoltura in vasca ci ha rovinati».
«Forse faremo meglio a deciderci a vendere la fattoria», suggerì Martha.
Ole non replicò.
«Potresti trovar lavoro in un impianto idroponico», Martha suggerì.
Ole scosse la testa.
«O forse potresti fare il giardiniere», lei insisté. «Saresti un ottimo giardiniere. La gente piena di soldi che si è trasferita fuori, in grandi tenute, ama avere dei giardinieri che si prendono cura dei fiori e di tutto il resto. È più elegante che farlo con le macchine».
Ole scosse di nuovo la testa. «Non sopporterei di perder tempo coi fiori», dichiarò. «No, dopo aver coltivato il mais per più di vent'anni».
«Forse», disse Martha, «potremmo avere uno di quei piccoli aeroplani. E l'acqua corrente in casa. E una vasca da bagno, invece di essere costretti a fare il bagno nella vecchia tinozza vicino al focolare, in cucina».
«Non saprei guidare un aereo», disse Ole.
«Ma certo che sapresti», ribatté Martha. «Sono facili da guidare. Diamine, i figli di Anderson non arrivano neanche alle ginocchia di un grillo, e volano, con uno di quegli affari, dappertutto. Uno di loro ha fatto lo stupido, una volta, ed è caduto fuori, ma...»
«Devo pensarci», l'interruppe Ole, disperato. «Devo pensarci».
Si girò di scatto, saltò uno steccato e si diresse verso i campi. Martha rimase accanto alla macchina e lo guardò allontanarsi. Una lacrima solitaria le corse giù, sulla guancia polverosa.
«Il signor Taylor la sta aspettando», disse la ragazza.
John J. Webster tartagliò: «Ma non sono mai stato qui, prima. Non poteva sapere che stavo arrivando».
«Il signor Taylor la sta aspettando», insisté la ragazza.
Gli indicò la porta con un cenno del capo. C'era scritto:
Ufficio per il Riadattamento Umano
«Ma non sono venuto qui per trovare un lavoro», protestò Webster. «Non sono venuto a farmi riaggiustare, o qualcosa di simile. Questo non è forse l'ufficio di collocamento del Comitato Mondiale?»
«Sì», annuì la ragazza. «Non vuole incontrare il signor Taylor?»
«Dal momento che lei insiste», disse Webster.
La ragazza fece scattare un interruttore, parlò dentro un intercom. «C'è il signor Webster, signore».
«Lo faccia entrare», rispose una voce.
Il cappello in mano, Webster varcò la soglia.
L'uomo alla scrivania aveva i capelli bianchi, ma il volto di un giovanotto. Gli indicò una sedia con un cenno del capo.
«Lei ha cercato un lavoro», disse.
«Sì», annuì Webster, «ma...»
«Prego, si sieda», disse Taylor. «Se sta pensando a quella scritta sulla porta, se la dimentichi. Non cercheremo di riadattarla».
«Non sono riuscito a trovare un lavoro», disse Webster. «L'ho cercato per settimane, ma nessuno mi ha voluto. Così, alla fine, sono venuto qui».
«Non voleva venir qui?»
«No. Sinceramente, no. Un ufficio di collocamento ha, be'... ha delle implicazioni che non mi piacciono».
Taylor sorrise. «Sì, la scelta del nome può non essere stata felice. Lei sta pensando agli uffici di collocamento dei vecchi tempi. I posti dove la gente in cerca di lavoro andava, quand'era disperata. Il governo teneva in funzione questi uffici cercando di trovar lavoro alla gente, perché non diventasse un onere pubblico».
«Sono disperato quanto basta», confessò Webster, «ma ho pur sempre un orgoglio che mi ha reso difficile venire. Ma alla fine non c'è stato nient'altro da fare. Vede, sono diventato un traditore...»
«In altre parole», l'interruppe Taylor, «lei ha detto la verità. E ciò è stato sufficiente a farle perdere il lavoro che aveva. Il mondo degli affari, e non soltanto qui, ma dovunque nel mondo, non è pronto per quella verità. L'uomo d'affari si aggrappa ancora al mito della città, al mito dell'abile venditore. Col tempo, si renderà conto che non ha bisogno della città, che il vendere prodotti e servizi davvero utili e al giusto prezzo gli porteranno più guadagni di quanti gliene abbia mai portati la vecchia tecnica del martellamento pubblicitario.
«Ma io mi chiedo, Webster, cosa l'ha spìnta ad agire come ha fatto?»
«Ero nauseato», spiegò Webster. «Nauseato di veder quella gente andare avanti alla cieca. Nauseato di assistere a tutti quegli sforzi per mantenere in vita una vecchia tradizione che da tempo avrebbe dovuto esser messa da parte. Nauseato dall'entusiasmo civico di King, pronto a sorridere stupidamente quando ogni motivo di entusiasmo era svanito».
Taylor annuì. «Webster, lei pensa di essere in grado di riadattare gli esseri umani?»
Webster si limitò a fissarlo.
«Dico sul serio», proseguì Taylor. «Il Comitato Mondiale lo ha fatto per anni, in silenzio, senza dar nell'occhio. Al punto che molti, fra i riadattati, neppure sospettano di esserlo stati.
«I mutamenti che si sono verificati fin dalla creazione del Comitato Mondiale, dalla vecchia organizzazione delle Nazioni Unite, hanno significato molti disadattati. L'avvento dell'energia nucleare nell'industria ha tolto il lavoro a centinaia di migliaia d'individui. Hanno dovuto venire addestrati a nuovi lavori, alcuni con la stessa energia nucleare, altri in campi diversi. L'avvento delle coltivazioni idroponiche ha letteralmente spazzato via gli agricoltori dalle loro terre. Questi, forse, ci hanno posto il problema più grave, poiché, al di fuori delle speciali conoscenze per coltivare le piante e allevare gli animali, non sapevano proprio far nient'altro. E la maggior parte di loro non aveva alcun desiderio d'imparare un.nuovo mestiere. Erano, quasi tutti, amaramente risentiti per la maniera in cui erano stati costretti ad abbandonare il modo di guadagnarsi da vivere ereditato dai loro antenati. Ed essendo individualisti per natura, ci hanno dato il più grosso grattacapo psicologico di ogni altra categoria».
«In gran parte sono ancora disoccupati», annuì Webster. «Ce ne sono cento o più che vivono alla giornata nelle case che hanno occupato abusivamente. Sparano ai conigli o agli scoiattoli, pescano, coltivano ortaggi e raccolgono frutta selvatica. Rubacchiano qua e là, e di tanto in tanto mendicano per le strade del centro».
«Lei conosce quella gente?» chiese Taylor.
«Ne conosco alcuni», disse Webster. «Uno di loro mi porta scoiattoli e conigli ogni tanto. Come compenso, chiede soldi per le munizioni».
«Si risentirebbero se si cercasse di riadattarli, non è vero?»
«Violentemente», annuì Webster.
«Lei conosce un agricoltore che si chiama Ole Johnson? Ancora attaccato alla sua terra, che si ostina a coltivare?»
Webster annuì.
«Cosa ne direbbe di tentare di riadattare questo Johnson?»
«Mi caccerebbe dalla fattoria», disse Webster.
«Gli uomini come Ole, e gli occupanti abusivi», dichiarò Taylor, «sono il grosso problema che ci è rimasto. Tutti gli altri, o quasi, si sono bene adattati, adeguandosi alla realtà presente. Alcuni di essi si lamentano molto del passato, ma si tratta di uno sfogo, o una forma di esibizionismo, niente più. Anche volendo, sarebbe impossibile riportarli al loro vecchio sistema di vita.
«Anni or sono, con l'adozione universale dell'energia nucleare nell'industria, il Comitato Mondiale si è trovato davanti a una difficile decisione. I cambiamenti che avrebbero fatto progredire il mondo, dovevano essere attuati gradualmente, per consentire alla gente di adattarsi in modo spontaneo, senza scosse, oppure dovevano essere portati avanti il più rapidamente possibile, lasciando al Comitato il compito di garantire l'indispensabile riadattamento umano? Fu deciso, giusto o sbagliato che fosse, che il progresso avrebbe dovuto venire per primo, indipendentemente dai suoi effetti sulla gente. La decisione, nel suo insieme, si è dimostrata saggia.
«Sapevamo, ovviamente, che in molti casi il riadattamento non doveva essere attuato troppo apertamente. In alcuni casi, come in quelli di grossi gruppi di operai che erano stati rimossi dai loro posti di lavoro, fu possibile. Ma in molti casi individuali, come quello del suo amico Ole, non lo è stato. Questi uomini devono essere aiutati a ritrovare se stessi in questo nuovo mondo, ma non devono sapere che vengono aiutati. Farglielo sapere, distruggerebbe la fiducia che hanno in se stessi e la loro dignità, e la dignità umana è la pietra miliare di ogni civiltà».
«Ero al corrente dei riadattamenti avvenuti all'interno dell'industria», disse Webster, «ma non avevo sentito parlare dei casi individuali».
«Non potevamo dar loro pubblicità, è ovvio», spiegò Taylor. «In pratica, è un'operazione clandestina».
«Ma perché lo sta dicendo a me, adesso?»
«Perché vorremmo che lei fosse dei nostri. Che, tanto per cominciare, ci desse una mano a riadattare Ole. E poi, magari, guardare un po' quello che si potrebbe fare con gli abusivi».
«Non so...» fece Webster.
«Abbiamo aspettato che fosse lei a venire da noi», disse Taylor. «Sapevamo che avrebbe finito per venire. King sarebbe riuscito a mandarle all'aria qualunque possibilità di trovar lavoro. Ha passato parola... lei è sulla lista nera di tutte le Camere di Commercio e di ogni gruppo civico che oggi esista al mondo».
«Probabilmente non ho scelta», commentò Webster.
«Non vogliamo che lei abbia questa sensazione», obiettò Taylor. «Si prenda un po' di tempo per pensarci, poi torni. Anche se deciderà di non accettare questo lavoro, gliene troveremo un altro... malgrado King».
Fuori dall'edificio, Webster trovò una figura simile a uno spaventapasseri che l'aspettava. Era Levi Lewis, senza il sogghigno dai denti sbrecciati, ma sempre col fucile sotto il braccio.
«Qualcuno dei ragazzi ha detto che l'avevano vista entrare qua dentro», spiegò. «Perciò l'ho aspettata».
«Qual è il guaio?» chiese Webster, poiché il volto di Levi era fin troppo eloquente.
«È quella maledetta polizia», disse Levi, e sputò disgustato.
«La polizia?» chiese Webster, mentre il cuore gli precipitava nello stomaco. Sapeva fin troppo bene qual era il guaio.
«Già», annuì Levi. «Si stanno preparando a scacciarci col fuoco».
«Così, il consiglio comunale alla fine si è arreso», fu l'amaro commento di Webster.
«Vengo appena adesso dal comando di polizia», dichiarò Levi. «Gli ho detto che faranno meglio ad andarci piano. Gli ho detto che qualcuno si troverà con le budella sparpagliate dappertutto, se ci proveranno. Ho piazzato i ragazzi tutt'intorno, con l'ordine di non sparare finché non saranno sicuri di far centro».
«Non puoi far questo, Levi», esclamò Webster, con durezza.
«Non posso?» ribatté Levi. «L'ho già fatto. Ci hanno cacciato dalle nostre fattorie, costringendoci a vendere perché non potevamo più guadagnarci da vivere. Non ci cacceranno via un'altra volta. Resteremo qui, o moriremo qui. L'unico modo in cui riusciranno a cacciarci col fuoco sarà quando non ci sarà più nessuno di noi a fermarli».
Si tirò su i calzoni, e sputò di nuovo.
«E non siamo i soli a pensarla così», ribadì. «Gramp è là fuori con noi».
«Gramp!»
«Sicuro, Gramp. Il vecchio che vive con lei. In un certo senso è lui che ha preso in mano la nostra situazione, come nostro comandante generale. Dice che si ricorda un bel po' di trucchi del tempo di guerra, che quelli della polizia non hanno mai visto né sentito. Ha mandato alcuni ragazzi là, al monumento della Legione, a portar via un cannone. E sa dove procurarsi i proiettili adatti, in qualche museo. E ha detto che, quando saremo pronti, faremo sapere che, alla prima mossa della polizia, bombarderemo il centro degli affari».
«Senti, Levi, vuoi farmi un piacere personale?»
«Ma certo, signor Webster».
«Vuoi entrare qua dentro e chiedere del signor Taylor? Insisti per vederlo. E digli che ho già cominciato a lavorare».
«Certo che lo farò. Ma lei, dove va?»
«Vado al municipio».
«È sicuro di non volere che io l'accompagni?»
«No», esclamò Webster. «Me la caverò meglio da solo. E, Levi...»